Romanzo
di Clemes Buelli
Pagine: 49
Prezzo: 7,50 euro
Tel.: 035 927177
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PROFILO DELL'AUTORE
CLEMES BUELLI, nato a Paratico (BS) nel 1958.
Scrittore per hobby e per diletto, solamente nel 2002, avendo a disposizione
lassi di tempo libero più frequenti, ha iniziato la sua partecipazione a
concorsi letterari in varie parti della penisola, come narratore di fiabe e di
racconti per bambini e per ragazzi, ottenendo, ancor in quell’anno, il 3° premio
al concorso «C’era una volta...», Promosso dalla Regione Autonoma del Friuli
Venezia Giulia e svoltosi a Trieste. Nel 2004 consegue il nono premio al «Premio
Letterario Arcadia», del Circolo Culturale «Il Confronto», di Corsico (MI) e,
solo successivamente, si dedica alla partecipazione a concorsi di composizioni
poetiche, pervenendo ad una Segnalazione di Merito al Premio Letterario
Nazionale «Valeria», di Cittaducale (Rieti). Ma rimanendo fedele al suo spirito
narrativo, inizia nel 2005 la stesura del romanzo breve «Il rubino del regno del
Nord», che è da considerarsi come esordio ed opera prima dell’autore.
PRIMA PARTE
Il fragore delle acque del grande fiume in piena si faceva sempre più grave e
forte, rimbombando sinistramente e coprendo ogni voce ed ogni rumore, mentre il
drappello di cavalieri si andava faticosamente avvicinando, aprendo varchi e
districandosi tra le fitte ramaglie ed i novelli rovi della vegetazione della
boscaglia. Un sottile strato di fango copriva ancora, a tratti, il sentiero,
mentre, più in là, l’erbetta soffice cedeva, arrendevole, sotto il peso degli
zoccoli dei cavalli. Arrivarono, finalmente, le avanguardie a raggiungere la
sponda e si attestarono all’imbocco del massiccio ponte di legno che congiungeva
le rive, in attesa dell’arrivo del seguito del corteo reale. Da quel punto già
si potevano intravedere i tetti delle casupole del villaggio che avrebbero
attraversato di lì a poco e la successiva, sterminata pianura che si apriva
davanti a loro, ma non il tanto agognato maniero del conte Goffredo Montani,
feudatario amico ed ospitale, presso il quale avrebbero goduto di due settimane
di meritato riposo. I primi raggi di un tiepido sole primaverile portarono il
sollievo e la speranza di poter presto asciugare i vestiti umidi che avevano
addosso, cosicché salutarono, oltremodo soddisfatti, l’ascesa del rosso astro di
fuoco nel cielo sgombro da nubi, in un raro mattino sereno di quella strana,
infinita stagione piovosa dell’Anno del Signore 1505.
Sbucarono, lentamente, dalla boscaglia e vennero avanti i primi alfieri, con i
vessilli ed i gonfaloni dalle reali insegne e poi, via via, dietro di loro, i
fanti in arme e gli arcieri di scorta alla lunga fila di carri del
vettovagliamento e delle provvigioni per uomini e animali ed, infine, i
cavalieri della guardia che, con le loro belle uniformi da parata, i loro
lucenti corpetti di metallo ed i loro elmi piumati, avevano diligentemente
svolto il compito da fungere da cornice e da protezione a Re Cristiano di
Danimarca, nel corso del lungo ed estenuante viaggio attraverso l’Europa.
Perché proprio di una marcia interminabile e spossante si era trattato!!
Cominciata, con i preparativi, già all’indomani dell’abdicazione al trono del
vecchio e malfermo Re Harald, padre di Cristiano, in favore del valoroso,
aitante e gagliardo figlio, con la solenne promessa di adempiere al non
mantenuto voto che lui stesso aveva, un giorno, pronunciato e a cui aveva dovuto
dolorosamente rinunciare, stante le sue sempre precarie ed instabili condizioni
di salute che avrebbero messo seriamente a repentaglio sia la sua stessa
incolumità che l’esito positivo del cammino.
Portare a Roma, da Papa Giulio II, le chiavi dorate del Regno e porlo sotto la
sua protezione e sotto le sue benedizioni, quale doveroso e riverente omaggio
del fedele e lontano popolo di Danimarca!
Ai primi giorni del nuovo anno, il lento pellegrinaggio di soldati, stallieri ed
inservienti aveva lasciato la reggia di Copenaghen, salutato dalle grida di
giubilo delle genti entusiasticamente accorse sulle strade e dai meno favorevoli
auspici di una fittissima e turbinosa nevicata e, di lì a pochi giorni, aveva
trasbordato i pesanti carri su di enormi zatteroni, preparati per l’occasione,
con cui affrontare i flutti burrascosi e gelidi del Gran Belt, fino alle acque
più placide della baia di Vejle. Avevan, poi, calpestato i ghiacci che
ricoprivano le loro campagne, prima di inoltrarsi nelle brughiere del Luneburg e
della Bassa Sassonia dove, tra paludi, stagni e fossati i loro mezzi
sprofondavano nel terreno molle e gonfio d’acqua tanto che, più volte ogni
giorno, eran costretti a formare quadriglie di muscolosi quadrupedi per trainare
e riposizionare, di nuovo, le ruote su una parte più solida e scorrevole della
banchina di transito. Ma tutti questi problemi erano andati, man mano,
affievolendosi allorché avevan cominciato a profilarsi davanti a loro le sagome
montuose delle rosse foreste di larici della Westfalia. Da quel momento in poi,
attraverso un intricato labirinto di sentieri, strade campali e camminamenti,
sfiorando i villaggi più sperduti e le città più evolute, avevan progredito
valicando le catene di monti dell’Assia e della Turingia, fino alle selve
d’abeti della Baviera, superando un numero di dogane e di frontiere da perderne
il conto e scendendo sempre più verso sud, verso l’Elvezia, verso le tortuose ed
impervie vie dei Grigioni ed imboccando, poi, la larga e verde vallata dell’Engadina,
al culmine della quale si apriva il valico delle terribili, temute e quasi
insormontabili Alpi. Quando, svolta dopo svolta, con gravoso incedere,
riuscirono a raggiungere lo stretto passaggio, i loro occhi poterono ammirare
estasiati l’immensa, lontana pianura della Padania che si estendeva
all’orizzonte, come parte finale e meno impegnativa del loro interminabile,
travagliato ed avventuroso cammino.
Ed ora, ancor infreddoliti e fradici, stavano lì, all’imbocco di quel massiccio
ponte di legno che congiungeva le due sponde di un fiume in piena mentre, in
paziente attesa, sorvegliavano circospetti l’avvicinarsi e lo sfilare del corteo
del loro re. Ed eccolo, finalmente, avanzare il loro giovane re… Re Cristiano di
Danimarca!!
Suscitava, davvero, ammirazione e meraviglia il vederlo con quel suo fisico
possente, da lottatore, eretto e fiero in sella al suo bianco destriero; avvolto
in un purpureo mantello damascato ed il caschetto di biondi riccioli ad
incorniciargli il viso pulito e fresco di latte e di rose, con in capo la corona
reale, tempestata e sfavillante di diamanti, smeraldi e gemme preziose
provenienti da sconosciute terre lontane! Sfilò davanti a loro, omaggiandoli di
un sorriso e salutandoli con il cenno della mano… e, finalmente, ebbero il
privilegio e la fortuna di veder brillare al suo anulare l’anello dal rosso
rubino, sul quale era incastonata la croce d’oro, simbolo della Danimarca e di
cui avevan sentito favoleggiare fin da quando eran bambini. Forgiato, in un
tempo remoto, dagli avi degli avi dei maestri orafi di corte, sigillo del padre
dei padri dei re come dono nuziale per le devote spose, fu da sempre ostentato e
onorato da sovrani giusti ed assennati come gemma tra le gemme degli scrigni
reali e gioiello tra i gioielli di una stirpe virtuosa e secolare. Lo videro per
un attimo appena irradiare quei raggi dardeggianti di luce che sapevan di
leggenda, ma tanto bastò ad appagarli ed a farli rimanere estatici mentre il
loro re procedeva. Attraversò il ponte, soffermandosi a guardare le vorticose e
torbide acque che scorrevano veloci sotto di lui, poi riprese a piccolo trotto
il cammino. Nel breve volgere di qualche minuto fece il suo ingresso, preceduto
dagli araldi, sulla dritta via principale dello sparuto villaggio, tra due ali
di gente che aveva abbandonato, per un momento, le proprie occupazioni
domestiche ed, incuriosita, si era affollata a sbirciare l’insolito passaggio.
Andò a fermarsi in un piccolo spiazzo erboso, davanti ad un omone dai bicipiti
erculei che, a braccia conserte, pareva volesse sbarrargli la strada. Indossava
una canotta intrisa di sporco e sudore, un paio di calzoni sdruciti e rattoppati
e, calato sugli occhi, un cappellaccio di paglia da cui spuntava solo un’incolta
e trascurata barbaccia nera. Si tolse il copricapo con un movimento lento e
misurato e mosse qualche incerto passo verso il candido cavallo ed il suo regale
cavaliere. Accennò un saluto, chinando lievemente la testa, in un gesto desueto
per lui e con voce tonante e sicura ruppe il rispettoso silenzio: "Benvenuto
in questa terra dimenticata!! Sono il mastro e il maniscalco del borgo ed il mio
nome è Annibale!! Se possiamo esserle utili in qualche piccolo servigio, sire,
non ha che da chiedere!", concluse, allargando le braccia ed indicando la
gente che, muta, stava a guardare. Poi, accarezzando il muso dell’animale come
lo conoscesse da sempre, guardò negli occhi re Cristiano: "Gran bella
bestia!! Oh,… come si vedon le amorevoli cure a cui è sempre stato sottoposto…!
È una meraviglia anche per occhi che se ne intendono!…Complimenti, maestà!!".
Re Cristiano sorrise compiaciuto e gli domandò: "Quanto manca, ancora, per
giungere al maniero del conte Goffredo Montani?". Rispose: "Già ora state
calpestando le sue terre, ma con l’andatura, a dir la verità, tanto lenta che
avete, non raggiungerete il castello che a pomeriggio inoltrato. Vi conviene far
abbeverare gli animali alle vasche appena fuori il borgo perché, grazie a Dio,
quest’anno l’acqua non manca, anzi…", terminò, puntando l’indice verso
mucchi di detriti e tronchi divelti portati lì dall’esondazione del fiume,
quindi, rimettendosi in testa il cappellaccio consunto si avviò verso la tettoia
dove ardeva ancora il fuoco e da dove, poco dopo, cominciarono a risuonare i
ritmici e squillanti colpi del martello sull’incudine.
Dal fondo della via si sentì risuonare, sempre più chiaro, un’eco di trambusto e
di grida. Una vecchia donna, vestita di una lunga sottana nera e di un
fazzoletto, ugualmente nero, che le raccoglieva i candidi ed arruffati capelli,
veniva a stento trattenuta da due uomini per impedirne che, con il suo fare,
potesse arrecare disturbo e scortesia all’illustre ospite. Riuscì a divincolarsi
e riprese, goffamente, a correre verso di lui. Fu di nuovo ripresa ma,
inaspettatamente, dimostrando una forza non comune per la sua veneranda età,
riuscì di nuovo a liberarsi e a proseguire mentre, agitando scompostamente le
magre braccia, andava urlando: "… E fatelo vedere anche a me da vicino,
questo re!!… Io non so cosa sia la Danimarca, ma ho ottant’anni e un re non son
mai riuscita a vederlo!!".
continua |