Romanzo
      
    di Luigi Catzola
      
    Pagine: 100
       Prezzo: 7,00 euro
       E-mail: luigi.catzola@telecomitalia.it
       Tel.: 335 6330473

     

    PRESENTAZIONE

    Linea di Confine è una variazione sul tema della vita e della condizione umana, che richiama alla mente autori vari: Brecht, la Beauvoir o Calvino, ad esempio.
    Due, praticamente, i personaggi: l’uomo e l’Angelo. L’uomo che vive nella condizione terrena e l’Angelo che vive solo nella conoscenza: conosce senza emozioni e passioni.
    L’uomo vede con la ragione, ma vive con passione ed emozioni, aspirando a superare il suo confine.
    La Linea di Confine è la concezione di un limite senza il quale non si esiste completamente. Vivere è capire e provare emozioni e passioni. L’uomo è tale perché vede con la ragione, ma è soggetto alle passioni. Sogna di conoscere, ma è nell’impossibilità di superare il suo destino, che è d’intelligenza e sogno, pensieri e sentimenti. L’Angelo vede, conosce, ma senza emozioni.
    Nel racconto, steso con chiarezza ed eleganza di forma, prevale la riflessione, tanto da apparire come una attenta meditazione sulla vita e sull’ansia dell’infinito.
    L’uomo non può essere angelo, né l’Angelo un uomo.
    La vita è solo nel limite.
    Nel racconto vi sono pagine di attenta descrizione paesistica e di convincente analisi psicologica.

                                                                                             Firenze, 7 gennaio 2004

                                                                                             Prof. Elvio Natali

     

    IL PRIMO PIANO

    Quando il carrello dell’aereo toccò terra, una profonda emozione avvolse il mio corpo. Tutto. Ma non perché eravamo finalmente atterrati. Sentii un afflusso di sangue improvviso avvamparmi il volto. Avvertivo il respiro un po’ affannoso che accompagnava ritmicamente non solo il mio battito cardiaco, ma anche le immagini che mi si presentavano alla mente e che rappresentavano, da un po’ di tempo, un mio pensiero fisso. Ero impaziente di rivederle e di provare le emozioni che avevo già provato la prima volta che le vidi. Esse, si susseguivano in sequenza nella mia mente, ora una alla volta, ora sovrapposte in modo confuso, ma sempre era chiaro l’effetto di ansia che esse mi producevano. Erano disegni che oramai conoscevo bene a memoria e che erano divenuti un pensiero continuo che riaffiorava con periodicità. Era un pensiero che ricorreva nella mia mente da un po’ di tempo. Tra poche ore avrei finalmente potuto rivedere la sua espressione, il frutto della sua creatività e del suo tormentato vivere.
    Ero stato a Parigi 3 settimane prima e da allora non riuscivo più a liberarmi di quelle visioni, di quelle immagini, di quei disegni che avevano così profondamente turbato le mie emozioni, e accompagnato, ma senza disturbare, alcune notti insonni spese a riflettere su quanto sentivo il bisogno di conoscere meglio, e condividere, i suoi momenti creativi. Momenti che racchiudevano, nella policromia e nelle forme, nelle geometrie e nei materiali usati, la perfezione dell’essere imperfetti. L’imperfezione che rende possibile l’ambire alla perfezione. L’imperfezione che rende possibile comporre nel proprio immaginario, la creazione perfetta. Imperfezione che regala tormento. Tormento dell’impossibilità di avere l’estasi perfetta che possa accompagnare la propria opera. Desideravo potermi impossessare di quei momenti fulminanti che avevano estasiato la sua creazione. Volevo possederli anch’io. Miei! E avrei voluto tanto poterli capire e averne condivisione emotiva. Con le sue stesse violente passioni che guidassero il mio animo. Come quando la violenza della tempesta ti trascina e le tue forze sono spese nella ricerca continua di coniugare il tuo corpo con i moti vorticosi della tempesta, senza doverla subire, ma in un gioco armonico di estrema difficoltà acrobatica, ma di indubbio ed estatico piacere. Volevo catturare i suoi momenti.
    Forse momenti di amore. Amore per quello scenario tormentato che gli si figurava davanti quando osservava il tramonto dietro ai monti. Tramonto che non era possibile essere di un unico Sole. Dovevano essere molti di più. Dovevano essere contemporanei. All’uno che tramontava si contrapponeva l’altro che si alzava in cielo. Che permetteva al tempo di fondere insieme albe e tramonti, speranza e disillusione, gioia e dolore. Vita e morte.. Fuori dal tempo, ma nella spazialità della propria visione, del proprio spazio di vita e di uomo. Non solo terreno, ma cosmico. Non era "il tramonto" l’oggetto. Ma quanto esso richiamava dal suo essere umano dotato di vista e di emotività. Dotato di passione. L’oggetto era l’estasi tormentata da una visione impossibile da fondere con la propria materia, con la propria essenza. L’oggetto era il "bello" da non poter sublimare con sé stesso. Da non poter immortalare assieme alle proprie materialità corporee e della mente. Sicuramente i suoi erano momenti d’amore. Ma non solo.
    Forse erano momenti di pazzia. Sì, quella lucida follia che ti permette di vedere senza vedere, di sentire senza sentire, di toccare senza toccare. Di assaporare il gusto estasiante di quanto c’è oltre quello che credi di vedere, di sentire, di toccare, con la materialità delle tue membra. Oltre la realtà del visibile. Oltre la realtà materiale e tangibile. Di assaporare quanto c’è nel tuo immaginario. Quanto la mente, questo piccolo, insignificante gomitolo di cellule grigie, si permette di disegnare e dare significato a un ordine precostituito di cui non potrà mai coglierne la vera essenza. Dove la conoscenza arriva a conoscere i propri limiti. Dove, sulla sua linea di confine, si apre un nuovo universo imperscrutabile perché oltre la realtà del suo reale. Dove ogni realtà, ha un suo fantastico oltre il suo reale. E ogni fantasia ha la sua realtà oltre il suo fantastico. Dove la creazione, diventa fantasia. Dove la fantasia diventa creazione, attualizzazione della propria linea di confine. Dove l’apparenza non esiste, ma il tormento, sì. Dove l’incapacità di esprimere la propria estasi, diventa tormento inespresso. Dove il sogno non è fantasia, ma realtà incerta di pulsioni mai appagate, o, appagate troppo. Tutti lo sanno pazzo. Ma quanti colgono la sua lucidità dalla sua espressività, dalla sua pazzia? Quanti riescono a vedere, senza vedere, quanto lui ha visto con due Soli sulla stessa Terra. Sicuramente i suoi erano momenti di pazzia. Ma non solo.
    Forse erano momenti religiosi. Di religiosità silenziosa ma graffiante. Dove l’assoluto è semplicemente il vivere. Il bisogno di terminare la propria giornata di fatica per poterne iniziare un’altra. Dove la forma del sacro assume le sembianze di una stanza spoglia e scura, illuminata stentatamente da una luce ammiccante di lampada a petrolio, consunta dal tempo e lì lì prossima alla fine. Di una stanza dove i volti umani sono quelli di poveri mangiatori di patate. Che non possono interrogarsi su niente se non sul dubbio di poter replicare il pasto l’indomani. Dove tutta la religiosità è cristallizzata in quegli sguardi stanchi, di gente anonima che ha duramente lavorato e che si appresta a terminare la propria giornata di fatica, consumando l’unico pasto possibile, fatto con le patate del proprio, misero raccolto, fatto e consumato con quelle stesse mani nodose e logorate dalla fatica. Una religiosità fatta della condivisione del pasto. Fatta dell’unione delle proprie forze per mantenere in piedi quella del gruppo, della famiglia che si riunisce per essere un’unità indivisibile e chiudere la propria giornata con la convinzione di esserci tutti, per condividere il domani che inizierà dopo la notte. Una religiosità che è tutta racchiusa anche nel dipinto della sua stanza. Quella che ha una prospettiva fortemente distorta come se fosse stata vista attraverso una lente grandangolare. Dove le geometrie hanno un punto di fuga prossimo alla stanza stessa. Dove convergono non solo le linee, ma anche i suoi sogni, tutti prossimi alle sue cose. Il suo letto, la sua sedia di paglia, le sue tele, il suo autoritratto, il suo mondo. Dove sacro significa vivere il proprio sogno, incorruttibile e non contaminabile da quanto non gli appartiene. Significa esorcizzare la sua pazzia. Dove il sogno si unisce al bisogno di essere e di manifestarsi su questa terra per il tramite della propria capacità di comunicare e di esprimersi attraverso le proprie tele.
    Avrei finalmente rivisto Vincent Van Gogh, o meglio, i suoi quadri, al museo di Orsay di Parigi. Ma dovevo far presto, il museo chiudeva presto e non mi restavano molte ore.
    Presi, come al solito, l’auto a noleggio dalla Hertz in aeroporto. Dopo qualche chilometro imboccai finalmente il periferico verso ovest, e mi avviai verso l’albergo.
    Avevo preso oramai l’abitudine di soggiornare, sempre, presso lo stesso albergo. Un piccolo albergo tipicamente parigino. Non era uno di quegli alberghi delle catene internazionali, quelli non mi piacciono, hanno sì un ottimo servizio, ma sono tutti uguali, a Parigi come a Londra o a New York. Preferivo invece trovare un ambiente non standard, ma tipico dei luoghi dove devo soggiornare. Si chiamava "Hotel Aviatic", situato in una stradina laterale e parallela alla strada principale Rue de Senne, che termina su Place Montparnasse. L’albergo era a poche centinaia di metri dal grattacielo Montparnasse. Era comodo perché distava poco da Saint Germain des Prés e dal quartiere latino dove avevo piacere di andare la sera a cena e a passeggiare respirando la tipica aria parigina. Lungo la Senna. A interrogarmi sul perché uno come me, fosse finito a lavorare su progetti militari. Io, ecologista, pacifista e amante delle scienze e delle passioni umane.
    Andavo a Parigi non meno di una volta al mese e mi trattenevo per un’intera settimana per una serie di incontri schedulati con la Matra Espace, una società di ingegneria aerospaziale con la quale lavoravamo su un progetto militare italo-francese. Era un progetto abbastanza impegnativo che aveva come obiettivo elaborare le immagini terrestri telerilevate da un satellite con orbita polare, secondo diversi criteri di qualità, allo scopo di poter avere sotto sorveglianza tutti i siti strategici terrestri e poter disporre, con aggiornamenti periodici di circa un paio d’ore, di tutti gli elementi necessari a pilotare azioni militari. Saranno state anche belle immagini. Ma quanta differenza con quelle di un quadro di Vincent.
    Differenze che non erano solo di policromie e di geometrie. Erano di significati. Era la semantica che era diversa. Non solo la sintassi. Non avrei potuto mai porre in relazione gli stati emotivi suscitati dall’uso delle tecniche analitiche, matematiche e logiche da applicare per disegnare gli schemi funzionali e operativi del progetto militare, con gli stati emozionali di Vincent e miei di quando osservo un suo quadro. Peggio ancora, la separazione era sostanziale. Erano la paranoia e l’arroganza umana che si contrapponevano alla semplicità, alla immediatezza e all’armonia delle policromie geometriche che reinterpretavano la natura e la vita umana attraverso la sensibilità di un uomo. Sulla sua linea di confine. Tra la sua conoscenza e la sua realtà. Tra il conoscere e il non. Tra il desiderare e il rifiutare. Tra il chiedersi il perché e l’agire, comunque, spinto dalle pulsioni.

    continua

- VETRINA LETTERARIA -

 
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