PRESENTAZIONE
Linea di Confine è una variazione sul tema della vita e della condizione
umana, che richiama alla mente autori vari: Brecht, la Beauvoir o Calvino, ad
esempio.
Due, praticamente, i personaggi: l’uomo e l’Angelo. L’uomo che vive nella
condizione terrena e l’Angelo che vive solo nella conoscenza: conosce senza
emozioni e passioni.
L’uomo vede con la ragione, ma vive con passione ed emozioni, aspirando a
superare il suo confine.
La Linea di Confine è la concezione di un limite senza il quale non si
esiste completamente. Vivere è capire e provare emozioni e passioni. L’uomo è
tale perché vede con la ragione, ma è soggetto alle passioni. Sogna di
conoscere, ma è nell’impossibilità di superare il suo destino, che è
d’intelligenza e sogno, pensieri e sentimenti. L’Angelo vede, conosce, ma senza
emozioni.
Nel racconto, steso con chiarezza ed eleganza di forma, prevale la riflessione,
tanto da apparire come una attenta meditazione sulla vita e sull’ansia
dell’infinito.
L’uomo non può essere angelo, né l’Angelo un uomo.
La vita è solo nel limite.
Nel racconto vi sono pagine di attenta descrizione paesistica e di convincente
analisi psicologica.
Firenze, 7 gennaio 2004
Prof. Elvio Natali
IL PRIMO PIANO
Quando il carrello dell’aereo toccò terra, una profonda emozione avvolse il mio
corpo. Tutto. Ma non perché eravamo finalmente atterrati. Sentii un afflusso di
sangue improvviso avvamparmi il volto. Avvertivo il respiro un po’ affannoso che
accompagnava ritmicamente non solo il mio battito cardiaco, ma anche le immagini
che mi si presentavano alla mente e che rappresentavano, da un po’ di tempo, un
mio pensiero fisso. Ero impaziente di rivederle e di provare le emozioni che
avevo già provato la prima volta che le vidi. Esse, si susseguivano in sequenza
nella mia mente, ora una alla volta, ora sovrapposte in modo confuso, ma sempre
era chiaro l’effetto di ansia che esse mi producevano. Erano disegni che oramai
conoscevo bene a memoria e che erano divenuti un pensiero continuo che
riaffiorava con periodicità. Era un pensiero che ricorreva nella mia mente da un
po’ di tempo. Tra poche ore avrei finalmente potuto rivedere la sua
espressione, il frutto della sua creatività e del suo tormentato
vivere.
Ero stato a Parigi 3 settimane prima e da allora non riuscivo più a liberarmi di
quelle visioni, di quelle immagini, di quei disegni che avevano così
profondamente turbato le mie emozioni, e accompagnato, ma senza disturbare,
alcune notti insonni spese a riflettere su quanto sentivo il bisogno di
conoscere meglio, e condividere, i suoi momenti creativi. Momenti che
racchiudevano, nella policromia e nelle forme, nelle geometrie e nei materiali
usati, la perfezione dell’essere imperfetti. L’imperfezione che rende possibile
l’ambire alla perfezione. L’imperfezione che rende possibile comporre nel
proprio immaginario, la creazione perfetta. Imperfezione che regala tormento.
Tormento dell’impossibilità di avere l’estasi perfetta che possa accompagnare la
propria opera. Desideravo potermi impossessare di quei momenti fulminanti
che avevano estasiato la sua creazione. Volevo possederli anch’io. Miei!
E avrei voluto tanto poterli capire e averne condivisione emotiva. Con le sue
stesse violente passioni che guidassero il mio animo. Come quando la violenza
della tempesta ti trascina e le tue forze sono spese nella ricerca continua di
coniugare il tuo corpo con i moti vorticosi della tempesta, senza doverla
subire, ma in un gioco armonico di estrema difficoltà acrobatica, ma di indubbio
ed estatico piacere. Volevo catturare i suoi momenti.
Forse momenti di amore. Amore per quello scenario tormentato che gli si figurava
davanti quando osservava il tramonto dietro ai monti. Tramonto che non era
possibile essere di un unico Sole. Dovevano essere molti di più. Dovevano essere
contemporanei. All’uno che tramontava si contrapponeva l’altro che si alzava in
cielo. Che permetteva al tempo di fondere insieme albe e tramonti, speranza e
disillusione, gioia e dolore. Vita e morte.. Fuori dal tempo, ma nella
spazialità della propria visione, del proprio spazio di vita e di uomo. Non solo
terreno, ma cosmico. Non era "il tramonto" l’oggetto. Ma quanto esso
richiamava dal suo essere umano dotato di vista e di emotività. Dotato di
passione. L’oggetto era l’estasi tormentata da una visione impossibile da
fondere con la propria materia, con la propria essenza. L’oggetto era il
"bello" da non poter sublimare con sé stesso. Da non poter immortalare assieme
alle proprie materialità corporee e della mente. Sicuramente i suoi erano
momenti d’amore. Ma non solo.
Forse erano momenti di pazzia. Sì, quella lucida follia che ti permette di
vedere senza vedere, di sentire senza sentire, di toccare senza toccare. Di
assaporare il gusto estasiante di quanto c’è oltre quello che credi di vedere,
di sentire, di toccare, con la materialità delle tue membra. Oltre la realtà del
visibile. Oltre la realtà materiale e tangibile. Di assaporare quanto c’è nel
tuo immaginario. Quanto la mente, questo piccolo, insignificante gomitolo di
cellule grigie, si permette di disegnare e dare significato a un ordine
precostituito di cui non potrà mai coglierne la vera essenza. Dove la conoscenza
arriva a conoscere i propri limiti. Dove, sulla sua linea di confine, si
apre un nuovo universo imperscrutabile perché oltre la realtà del suo reale.
Dove ogni realtà, ha un suo fantastico oltre il suo reale. E ogni fantasia ha la
sua realtà oltre il suo fantastico. Dove la creazione, diventa fantasia. Dove la
fantasia diventa creazione, attualizzazione della propria linea di confine.
Dove l’apparenza non esiste, ma il tormento, sì. Dove l’incapacità di esprimere
la propria estasi, diventa tormento inespresso. Dove il sogno non è fantasia, ma
realtà incerta di pulsioni mai appagate, o, appagate troppo. Tutti lo sanno
pazzo. Ma quanti colgono la sua lucidità dalla sua espressività,
dalla sua pazzia? Quanti riescono a vedere, senza vedere, quanto lui ha
visto con due Soli sulla stessa Terra. Sicuramente i suoi erano momenti
di pazzia. Ma non solo.
Forse erano momenti religiosi. Di religiosità silenziosa ma graffiante. Dove
l’assoluto è semplicemente il vivere. Il bisogno di terminare la propria
giornata di fatica per poterne iniziare un’altra. Dove la forma del sacro assume
le sembianze di una stanza spoglia e scura, illuminata stentatamente da una luce
ammiccante di lampada a petrolio, consunta dal tempo e lì lì prossima alla fine.
Di una stanza dove i volti umani sono quelli di poveri mangiatori di patate.
Che non possono interrogarsi su niente se non sul dubbio di poter replicare il
pasto l’indomani. Dove tutta la religiosità è cristallizzata in quegli sguardi
stanchi, di gente anonima che ha duramente lavorato e che si appresta a
terminare la propria giornata di fatica, consumando l’unico pasto possibile,
fatto con le patate del proprio, misero raccolto, fatto e consumato con quelle
stesse mani nodose e logorate dalla fatica. Una religiosità fatta della
condivisione del pasto. Fatta dell’unione delle proprie forze per mantenere in
piedi quella del gruppo, della famiglia che si riunisce per essere un’unità
indivisibile e chiudere la propria giornata con la convinzione di esserci tutti,
per condividere il domani che inizierà dopo la notte. Una religiosità che è
tutta racchiusa anche nel dipinto della sua stanza. Quella che ha una
prospettiva fortemente distorta come se fosse stata vista attraverso una lente
grandangolare. Dove le geometrie hanno un punto di fuga prossimo alla stanza
stessa. Dove convergono non solo le linee, ma anche i suoi sogni, tutti
prossimi alle sue cose. Il suo letto, la sua sedia di paglia, le sue tele, il
suo autoritratto, il suo mondo. Dove sacro significa vivere il proprio
sogno, incorruttibile e non contaminabile da quanto non gli appartiene.
Significa esorcizzare la sua pazzia. Dove il sogno si unisce al bisogno di
essere e di manifestarsi su questa terra per il tramite della propria capacità
di comunicare e di esprimersi attraverso le proprie tele.
Avrei finalmente rivisto Vincent Van Gogh, o meglio, i suoi quadri, al museo di
Orsay di Parigi. Ma dovevo far presto, il museo chiudeva presto e non mi
restavano molte ore.
Presi, come al solito, l’auto a noleggio dalla Hertz in aeroporto. Dopo qualche
chilometro imboccai finalmente il periferico verso ovest, e mi avviai verso
l’albergo.
Avevo preso oramai l’abitudine di soggiornare, sempre, presso lo stesso albergo.
Un piccolo albergo tipicamente parigino. Non era uno di quegli alberghi delle
catene internazionali, quelli non mi piacciono, hanno sì un ottimo servizio, ma
sono tutti uguali, a Parigi come a Londra o a New York. Preferivo invece trovare
un ambiente non standard, ma tipico dei luoghi dove devo soggiornare. Si
chiamava "Hotel Aviatic", situato in una stradina laterale e parallela alla
strada principale Rue de Senne, che termina su Place Montparnasse. L’albergo era
a poche centinaia di metri dal grattacielo Montparnasse. Era comodo perché
distava poco da Saint Germain des Prés e dal quartiere latino dove avevo piacere
di andare la sera a cena e a passeggiare respirando la tipica aria parigina.
Lungo la Senna. A interrogarmi sul perché uno come me, fosse finito a lavorare
su progetti militari. Io, ecologista, pacifista e amante delle scienze e delle
passioni umane.
Andavo a Parigi non meno di una volta al mese e mi trattenevo per un’intera
settimana per una serie di incontri schedulati con la Matra Espace, una società
di ingegneria aerospaziale con la quale lavoravamo su un progetto militare
italo-francese. Era un progetto abbastanza impegnativo che aveva come obiettivo
elaborare le immagini terrestri telerilevate da un satellite con orbita polare,
secondo diversi criteri di qualità, allo scopo di poter avere sotto sorveglianza
tutti i siti strategici terrestri e poter disporre, con aggiornamenti periodici
di circa un paio d’ore, di tutti gli elementi necessari a pilotare azioni
militari. Saranno state anche belle immagini. Ma quanta differenza con quelle di
un quadro di Vincent.
Differenze che non erano solo di policromie e di geometrie. Erano di
significati. Era la semantica che era diversa. Non solo la sintassi. Non avrei
potuto mai porre in relazione gli stati emotivi suscitati dall’uso delle
tecniche analitiche, matematiche e logiche da applicare per disegnare gli schemi
funzionali e operativi del progetto militare, con gli stati emozionali di
Vincent e miei di quando osservo un suo quadro. Peggio ancora, la separazione
era sostanziale. Erano la paranoia e l’arroganza umana che si contrapponevano
alla semplicità, alla immediatezza e all’armonia delle policromie geometriche
che reinterpretavano la natura e la vita umana attraverso la sensibilità di un
uomo. Sulla sua linea di confine. Tra la sua conoscenza e la
sua realtà. Tra il conoscere e il non. Tra il desiderare e il rifiutare. Tra
il chiedersi il perché e l’agire, comunque, spinto dalle pulsioni.
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