Episodi realmente accaduti
di Germano Costa
Pagine: 63
Prezzo: 8,00 euro
E-mail: costa155@interfree.it
Tel.: 329 4240119
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PRESENTAZIONE
Questo libro è una raccolta di episodi realmente accaduti durante i miei
numerosi viaggi in luoghi pieni di dolore, dove spesso si evita di guardare per
non vedere la parte peggiore dell’Uomo.
Devo, innanzitutto, ringraziare mia moglie, per la pazienza e l’amore che mi ha
dimostrato finora; i miei quattro figli che mi hanno atteso pazientemente
durante le mie lunghe assenze. Spero che questo libro sia loro d’esempio per il
futuro che affronteranno.
Sono molto grato a Maria Antonietta Rea e Franca Mancini, che non solo hanno
creduto nelle mie potenzialità di scrittore, ma mi hanno incoraggiato ed
aiutato; a tutti gli amici, D. Masini, Alessandro, Vittorio, Patricia, Loredana,
per il sostegno mostrato nell’apprezzare e nel promuovere i miei testi.
Ringrazio per ultimi, non per importanza, tutti coloro che mi hanno dato
fiducia, offrendomi quell'appoggio economico e morale, rendendo possibile il
realizzarsi di una parte dei miei sogni, sì il sogno di viaggiare per il mondo,
offrendo ad altri l’amore che Dio mi ha insegnato fin da bambino, oltre a chi ha
acceso in me, tanto tempo fa, la passione per la scrittura: la donna di cui mi
ero innamorato in gioventù.
Sono onorato di avere amici così.
Costa Germano, scrittore
CATUMBI
Non molto tempo fa sono tornato in quella città dove ero andato da giovane e ho
rivisto lo stesso paesaggio.
Nell’arco di dieci anni le favelas sono cresciute a dismisura, solo entrandoci,
però, mi sono reso conto che il tempo non aveva cambiato nulla al loro interno:
stessa miseria, stesso abbandono stessa povertà.
Era già da due giorni che risiedevo in un lussuoso albergo di Rio de Janeiro.
Ero avvolto quotidianamente da una coltre d’effimera allegrezza, sorrisi
ammiccanti che tutto avevano fuorché amicizia. Tutto era surreale, sembrava un
set da film: i film così non mi sono mai piaciuti.
Una giorno, decisi di andarmene per conto mio, nella città vecchia, se si può
definire così, Catumbi: un ammasso di favelas maleodoranti e piene di miseria.
Poco prima avevo dato una lauta mancia a un cameriere chiedendogli di
accompagnarmi, ma questi aveva decisamente rifiutato. Roberto, così si chiamava,
era nato proprio lì, ma non voleva ritornarci più.
E già, quello non era un posto dove si poteva trovare felicità, specie per chi
viveva costantemente nell’altro lato di una città che offriva non miseria, ma
una vita molto migliore.
Lasciai i miei familiari in albergo e mi recai a piedi verso la città vecchia,
in tutta solitudine. Non temevo per la mia incolumità anche perché mi ero
procurato un abbigliamento consono per recarmi in quel luogo. Pur indossando
stracci, però, cercando di mimetizzarmi fra quelli del posto, a un certo punto
mi ritrovai circondato da molte persone e soprattutto bambini. Da subito svuotai
le tasche di quei pochi soldi che avevo con me in quel momento.
Nel frattempo si avvicinò una vecchia signora: almeno cosi mi appariva. Solo
dopo che aveva cominciato a parlarmi, avevo intuito dalla sua gestualità, dalla
pelle liscia del collo e delle cosce che sporgevano dagli stracci maleodoranti
che indossava, che non era affatto vecchia!
Il suo viso portava i segni di una vita vissuta e profonde rughe ne segnavano
ancor di più il viso. Mi disse di percorrere una piccolo sentiero, fra gli
alberi di quelle splendide colline. Rimasi sorpreso da tanta insistenza, ma
credo avesse intuito perché ero andato in quel posto e che cercasse di farmi
vedere la triste realtà che erano costrette a sopportare quelle migliaia di
famiglie ammassate in case di legno una sovrastante l’altra.
Attraversammo molte case disastrate, mi seguivano molti bambini. Ogni qualvolta
che mi voltavo, per cercare qualche segnale da ricordare per il ritorno, mi
sorridevano con denti cariati e occhi lucidi. Sentivo nell’aria ancora l’odore
nauseante dell’alcool che in città adoperavano per le auto. Non ho mai
sopportato quell’odore!
Poi incominciò a mescolarsi con un altro, ancor più nauseante: quello della
spazzatura. Infatti, appena usciti da quella baraccopoli, mi ritrovai in una
discarica. Restai ammutolito, vidi che era piena di persone, di cui la gran
parte erano bambini.
Arrivavano camion stipati di spazzatura e scaricavano in quel mare di plastica e
carta, i rifiuti del giorno prima. C’era fumo, puzza, bambini e umidità. Notai
che i ragazzi erano organizzati a gruppi, davanti a me c’era ne era uno composto
da cinque ragazzi, dai tre ai 15 anni e tre di loro erano bambine. Era uno
spettacolo orribile. C’era una bambina, credo non avesse che poco più di due
anni, si chiamava Dora. Teneva una bacchetta nella mano e con quella rovistava
fra l’immondizia cercando qualcosa da mangiare. Spostava i rifiuti con movimenti
lenti, alla ricerca di chissà che cosa. La ragazza più grande trovò un barattolo
di latte aperto, vidi che prima lo annusò, poi lo sorseggiò, ne tenne un po’ e
lo diede alla bambina piccola. Io ero lì, le lacrime mi scendevano dal viso. Non
so quanto piansi, non lo so quanto tempo stetti lì a guardare la scena.
Paula, la ragazza che avevo scambiato per vecchia, mi mise la mano sulla spalla,
mi parlava con voce arrabbiata. Poco dopo mi riaccompagnò raccontandomi del
disagio che vivevano, fin quasi all’entrata dell’albergo.
Non dormii quella notte, mi ero sentito ipocrita davanti a Paula, ma soprattutto
pensavo a quei bambini, a quella piccina. Avrei voluto portarla con me, forse
perché avrei voluto tanto avere una figlia.
Alla mattina decisi di comperare con la carta di credito un carro di viveri. Mia
moglie mi rimproverò ma aveva ragione: non si possono risolvere così queste
cose. Ma ciò nonostante, tornai con il mio carico in quel luogo.
Arrivato al piccolo piazzale davanti la casa di Paula, dovetti contrastare un
bullo che, con le minacce, voleva portarsi via parte del carico. Arrivammo alle
mani, da uno che era diventarono parecchi. Paula se ne accorse e per darmi una
mano chiamò tutti i ragazzi che conosceva. Solo così li mettemmo in fuga. Io,
però, fui preso e allontanato da lì, mi potarono dove dormivano tutti i bambini
senza famiglia.
Erano fra dei tombini abbandonati, che avrebbero dovuto servire per le
fognature, ma che non furono mai usate come tali: i ragazzi li avevano ricoperti
di frasche e pezzi di tavola e ne avevano tratto un dormitorio. Erano lì ormai
da quasi un decennio. Mangiai con loro e fu una splendila giornata, perché si
divertivano con il cellulare e l’orologio. Capii anche che non sarei mai
riuscito a sradicare da quel luogo la miseria. Seppi che per diversi giorni
ebbero da mangiare e vestiti migliori di quelli che avevano, ma seppi anche che
non smettevano di andare in quel luogo, dove i rifiuti si ammassavano formando
un’altra collina.
Quel giorno mi ero messo a sedere vicino alla piccola Dora per mangiare. Al solo
pensiero di averla vista il giorno prima rovistare fra i rifiuti con quella
bacchetta, rabbrividivo. Sorrideva ed era contenta, ma la vedevo triste, avrei
voluto portarla con me in albergo, e successivamente in Italia.
Ritornai per diversi giorni e la prima cosa che facevo era cercarla subito, era
felice quando giocavamo assieme a Paula e ad tutti gli altri, ma aveva sempre
quegli occhi tristi, e pieni di voglia di vivere.
Un giorno non andai in quel luogo, dovevo andare con la comitiva, ma il mio
pensiero era fra loro. Pensavo soprattutto al futuro di tutti quei ragazzi. La
mattina seguente portai il mio solito bagaglio di viveri, mi ero organizzato in
albergo e avevo raccolto molte cose per quei ragazzi, ma dovevo loro far capire
che dovevano trovare una soluzione per loro, dovevano darsi da fare, dovevano
farsi aiutare, ora si fidavano di me e anche molti altri che prima mi temevano.
Anche loro ne avevano subite di tutti i colori, il più grande fra loro che aveva
17anni, mi disse che ne erano morti 16 per avere ingerito cibo avariato, sì il
cibo avariato, MALEDETTO CIBO.
Cercai la piccola Dora. Paula mi aveva detto che probabilmente era
nell’immondezzaio (e sì, ci capivamo, perché parlando veneto e specialmente
veneziano ti capisci, comunichi con i brasiliani).
Lei non poteva badare a nessuno di loro, li guardava se avevano qualche malattia
qualche volta, aveva la sua famiglia.
Andai tranquillamente verso il loro solito posto, avevo deciso di portarli con
me quel giorno, di farli divertire, anche se avevano paura di scendere giù in
città, ma dovevano incominciare ad avere fiducia nelle persone, e attraverso
questa esperienza, far loro capire che non tutti erano violentatori o assassini.
Arrivai e vidi che i ragazzi erano fermi in cerchio e come impietriti. Mi
avvicinai, credevo che avessero trovato qualche neonato fra la spazzatura,
questo accadeva molto spesso (mi avevano raccontato che le bambine madri spesso
si liberavano dei piccoli gettandoli nell’immondezzaio). Io avevo detto loro che
questo succedeva anche in Italia e che da quando avevano messo la raccolta
automatica, non se ne sentivano più di ritrovamenti.
Accostandomi di più, vidi che c’era un corpicino rigonfio, di colore violaceo,
mi misi in mezzo a loro e vidi che era la mia piccola e dolcissima Dora...
Piansi. Piansi così tanto, che, me ne andai sfinito. Sentivo su di me come
un’enorme forza che mi schiacciava tanto da non riuscire, se non a malapena, ad
alzarmi.
Non so cosa mi prese, loro, quelli che morivano lì, venivano interrati fra le
immondizie. Ricordo che presi la piccola in braccio e la portai in città a piedi
piangendo.. la portai davanti l’ospedale, la diedi a un dottore del pronto
soccorso. Seppi dopo poche ore che era morta perché aveva ingerito del cibo
avvelenato.
Dopo due giorni partii salutando tutti quei ragazzi incoraggiandoli ad andarsene
in qualche modo da quei luoghi. Diedi loro degli indirizzi di centri in altre
città che si occupavano di questi problemi. Dopo un anno, seppi che uno degli 11
figli di Paula era morto anche lui per avere ingerito cibo avvelenato.
Oggi, disteso su di una panchina, mentre osservo le foglie sui rami di vecchi
alberi muoversi al leggero vento che spira dal mare, mentre ascolto la musica,
penso al giorno che ritornai fra quelle favelas. L’aver ritrovato Paula mi aveva
fatto sembrare che il tempo non fosse mai trascorso, ma di quei bambini e
ragazzini che conobbi, di loro non trovai nessuna traccia. Altri avevano preso
il loro posto, più nessuno di loro era là fra quelle baracche. Sì, perché
Sorella Morte li aveva accompagnati nel grembo della terra.
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