Saggistica
      
    di Antonia Izzi Rufo
      
    Pagine: 32
       Prezzo: 6,00 euro
       E-mail: antoniaizzi@virgilio.it
       Tel.: 0865 954107

     

    PREFAZIONE
    Una persona umile e lungimirante

    Perché ricordare solo uomini importanti, già noti e famosi e immortalati?
    Credo sia giusto ed equo far conoscere anche persone che si sono distinte per il loro contributo al sociale e delle quali il nome è rimasto in ombra.
    Voglio, di una di codeste, che ho visto nascere ed ho avuto modo di seguire ed apprezzare, ovviare al torto, delinearne le virtù in codesto libello.
    Mi piacerebbe riscoprire i nomi di quanti hanno fatto parlare di sé per le loro opere, ma mi limiterò a ricordarne soltanto uno. Mi auguro che altri, sulla mia scia, riportino alla luce coloro che meritano riconoscenza e menzione presso i posteri.
    Vi dirò di uno scapolese di nome «Pasqualino di Cesare», così come la gente lo chiamava per identificarlo.
    Perché proprio lui?
    In primis, perché fu un uomo buono ed onesto che si prodigò con spirito di abnegazione per il suo paese perché uscisse dal buio e riscoprisse la sua tradizione, poi perché morì in modo prematuro (1934-1984) e non ebbe il tempo materiale per realizzare in pieno quanto aveva, in maniera proficua, intrapreso…
    Le doti, le iniziative, l’operato di una persona si focalizzano pienamente solo dopo la morte: pure chi non merita viene osannato.
    Tale non è il caso di Pasqualino.

    ***

    Pasquale era il suo nome, Cesare quello del padre (patronimico).
    In paese v’è l’abitudine di pronunciare il nome di nascita più quello del padre o della madre, per riconoscere le persone che non solo portano lo stesso nome ma anche lo stesso cognome: Maria di Annina, Elviro di Emidio, Teresa di Giovannina, Antonio di Nicola…
    Se il nome di battesimo non è comune e non fa sorgere equivoci, si pronuncia da solo. Es., Galdino.

     

    PASQUALE VECCHIONE

    Nacque a Scapoli in una fredda serata d'inverno il 23 dicembre del 1934.
    L’aria era gelida ma l’atmosfera che avvolgeva le famiglie calda per il Natale che era alle porte.
    Io avevo solo cinque anni.
    Quella sera ero eccitata, ricordo, come tutti i miei parenti. Eravamo riuniti nella casa del nonno Antonio, il guardaboschi, così come pochi giorni prima quando era nato mio fratello Galdino.
    Tutti dicevano che in casa dei miei genitori e in quella dei miei zii Cesare e Mariacarmine eran nati due "bambinelli Gesù".

    ***

    Dove si facevano nascere a quei tempi i bambini? In casa.
    Non s’andava in ospedale e non si eseguivano tutti i controlli e le analisi cui, periodicamente, si sottopongono oggi le donne in attesa. C’era qualcosa che non andava?… S’ignorava e si moriva.
    Appena la gestante avvertiva i segni premonitori del parto, ossia quando «si rompevano le acque», si metteva a letto e aspettava che arrivasse la "mammara o mammina", una vecchietta che esercitava la professione d’ostetrica , pur non avendo nessun diploma. Solo l’esperienza trasmessale dalla madre o dalla nonna o da qualche donna anziana competente in materia.
    La mammara dava subito ordini alle donne che assistevano al parto: lavarsi le mani con il sapone o la liscivia, mettere sul fuoco un caldaio pieno d’acqua, preparare delle lenzuola, immergere un paio di forbici nell’acqua in ebollizione per sterilizzarle.
    Appena il neonato era venuto alla luce, gli si tagliava il cordone ombelicale, si lavava e si avvolgeva, come "un salamino", sino al collo e con le braccia aderenti ai fianchi, stretto stretto nelle fasce.
    Perché tale tortura?
    Poiché si credeva che, sistemato così, il piccolo sarebbe cresciuto"diritto" e non gli si sarebbero deformate le gambe.
    E se egli avesse avvertito prurito? Poveretto, doveva soffrire le pene dell’inferno.
    Appena sistemato il bambino, alla puerpera si estraeva la "seconda" (placenta) che si soleva sotterrare in campagna: non gettata in altro posto in quanto si pensava ciò avrebbe portato sfortuna. La gente era superstiziosa e vi credeva.
    Zi’ ‘Nt’niella raccolse sia Galdino, pochi giorni innanzi, che Pasqualino.
    Il compenso? Niente soldi, solo "roba di casa", come si soleva dire: olio, vino, formaggio, legumi, uova, polli, conigli…
    La casa in cui nacque Pasqualino c’è ancora, disabitata naturalmente e da ristrutturare e modernizzare. È senz’acqua, né gas, né servizi igienici.
    Si trova nella parte più alta di Scapoli, nel vecchio centro storico. Tre piani e balconi dai quali si gode un panorama bellissimo, molto ampio: la parte nuova del paese, centri abitati, valli, monti, strade e viadotti.
    Quella casa, si racconta, in tempi antichi era appartenuta a persone benestanti.
    Al pianterreno c’erano la bottega di falegnameria del padre e le cantine, sopra, invece, cucine, camere e ripostigli.

    ***

    I genitori di Pasqualino erano persone semplici, senza istruzione, col certificato di 3ª elementare, oneste.
    La madre, una brava donna che s’occupava della casa della famiglia e della campagna, era umile e sottomessa e non contrastava le decisioni del marito neppure quando si trattava di difendere i figli.
    Il padre esercitava il mestiere di falegname e, quando poteva, si recava nei campi con la moglie per coltivare cereali ed ortaggi, potare viti, alberi da frutta ed ulivi (di questi ne possedeva tanti).
    Era allegro e socievole. Beveva con moderazione il vino che produceva ed aveva il vizio del fumo. Ricordo che era solito mandare a comprare, dalle figlie Onorina e Angelina, cinque sigarette per volta per non eccedere nel fumare. (Allora le sigarette si vendevano sfuse).
    Era piuttosto avaro ma giustificato perché in quei tempi la moneta scarseggiava e per guadagnare un soldo bisognava compiere enormi sacrifici.
    Non faceva mancare alla famiglia lo stretto indispensabile. Gli alimenti, quasi interamente, erano il prodotto del lavoro dei componenti della famiglia.
    In casa viveva anche la madre di lui, Giusta, che s’occupava degli animali domestici, dalle capre alle galline, dai conigli al maiale. Si era soliti comprare poche cose: sigarette, zucchero, scarpe e vestiti, questi davvero con molta parsimonia.

    ***

    Dopo il diploma di terza media, Pasqualino s’iscrisse alla quarta ginnasiale.
    S’era distinto per intelligenza e buona volontà, ecco perché poté scegliere il liceo classico, allora considerato - e forse ancor oggi - la scuola degli alunni migliori.
    Gli studenti risiedevano quasi tutti ad Isernia, in una pensione o in case private ma egli viaggiava. Non con la corriera (unico mezzo pubblico allora disponibile) il cui orario non coincideva con quello dell’inizio delle lezioni, ma con una bicicletta usata che il padre aveva comprato per pochi soldi.
    Allora le strade non erano comode e si faceva tanta fatica a percorrerle.
    Breccia e polvere e… tanto sudore.
    Spesso le gomme delle ruote si bucavano e il povero Pasqualino si doveva fermare a ripararle.
    E così era costretto ad entrare in aula in ritardo, quando glielo permettevano, oppure a marinare la scuola.
    Alle sei del mattino, con il brutto o col bel tempo, partiva da casa e, se non si verificavano imprevisti, arrivava in orario.
    Nei banchi si concedeva il riposo fisico agognato mentre seguiva le lezioni dei professori.

    continua

- VETRINA LETTERARIA -

 
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