PREFAZIONE
Una persona umile e lungimirante
Perché ricordare solo uomini importanti, già noti e famosi e
immortalati?
Credo sia giusto ed equo far conoscere anche persone che si sono distinte per il
loro contributo al sociale e delle quali il nome è rimasto in ombra.
Voglio, di una di codeste, che ho visto nascere ed ho avuto modo di seguire ed
apprezzare, ovviare al torto, delinearne le virtù in codesto libello.
Mi piacerebbe riscoprire i nomi di quanti hanno fatto parlare di sé per le loro
opere, ma mi limiterò a ricordarne soltanto uno. Mi auguro che altri, sulla mia
scia, riportino alla luce coloro che meritano riconoscenza e menzione presso i
posteri.
Vi dirò di uno scapolese di nome «Pasqualino di Cesare», così come la gente lo
chiamava per identificarlo.
Perché proprio lui?
In primis, perché fu un uomo buono ed onesto che si prodigò con spirito
di abnegazione per il suo paese perché uscisse dal buio e riscoprisse la sua
tradizione, poi perché morì in modo prematuro (1934-1984) e non ebbe il tempo
materiale per realizzare in pieno quanto aveva, in maniera proficua, intrapreso…
Le doti, le iniziative, l’operato di una persona si focalizzano pienamente solo
dopo la morte: pure chi non merita viene osannato.
Tale non è il caso di Pasqualino.
***
Pasquale era il suo nome, Cesare quello del padre (patronimico).
In paese v’è l’abitudine di pronunciare il nome di nascita più quello del padre
o della madre, per riconoscere le persone che non solo portano lo stesso nome ma
anche lo stesso cognome: Maria di Annina, Elviro di Emidio, Teresa
di Giovannina, Antonio di Nicola…
Se il nome di battesimo non è comune e non fa sorgere equivoci, si pronuncia da
solo. Es., Galdino.
PASQUALE VECCHIONE
Nacque a Scapoli in una fredda serata d'inverno il 23
dicembre del 1934.
L’aria era gelida ma l’atmosfera che avvolgeva le famiglie calda per il Natale
che era alle porte.
Io avevo solo cinque anni.
Quella sera ero eccitata, ricordo, come tutti i miei parenti. Eravamo riuniti
nella casa del nonno Antonio, il guardaboschi, così come pochi giorni prima
quando era nato mio fratello Galdino.
Tutti dicevano che in casa dei miei genitori e in quella dei miei zii Cesare e
Mariacarmine eran nati due "bambinelli Gesù".
***
Dove si facevano nascere a quei tempi i bambini? In casa.
Non s’andava in ospedale e non si eseguivano tutti i controlli e le analisi cui,
periodicamente, si sottopongono oggi le donne in attesa. C’era qualcosa che non
andava?… S’ignorava e si moriva.
Appena la gestante avvertiva i segni premonitori del parto, ossia quando «si
rompevano le acque», si metteva a letto e aspettava che arrivasse la "mammara
o mammina", una vecchietta che esercitava la professione d’ostetrica ,
pur non avendo nessun diploma. Solo l’esperienza trasmessale dalla madre o dalla
nonna o da qualche donna anziana competente in materia.
La mammara dava subito ordini alle donne che assistevano al parto:
lavarsi le mani con il sapone o la liscivia, mettere sul fuoco un caldaio pieno
d’acqua, preparare delle lenzuola, immergere un paio di forbici nell’acqua in
ebollizione per sterilizzarle.
Appena il neonato era venuto alla luce, gli si tagliava il cordone ombelicale,
si lavava e si avvolgeva, come "un salamino", sino al collo e con le braccia
aderenti ai fianchi, stretto stretto nelle fasce.
Perché tale tortura?
Poiché si credeva che, sistemato così, il piccolo sarebbe cresciuto"diritto" e
non gli si sarebbero deformate le gambe.
E se egli avesse avvertito prurito? Poveretto, doveva soffrire le pene
dell’inferno.
Appena sistemato il bambino, alla puerpera si estraeva la "seconda" (placenta)
che si soleva sotterrare in campagna: non gettata in altro posto in quanto si
pensava ciò avrebbe portato sfortuna. La gente era superstiziosa e vi credeva.
Zi’ ‘Nt’niella raccolse sia Galdino, pochi giorni innanzi, che Pasqualino.
Il compenso? Niente soldi, solo "roba di casa", come si soleva dire: olio, vino,
formaggio, legumi, uova, polli, conigli…
La casa in cui nacque Pasqualino c’è ancora, disabitata naturalmente e da
ristrutturare e modernizzare. È senz’acqua, né gas, né servizi igienici.
Si trova nella parte più alta di Scapoli, nel vecchio centro storico. Tre piani
e balconi dai quali si gode un panorama bellissimo, molto ampio: la parte nuova
del paese, centri abitati, valli, monti, strade e viadotti.
Quella casa, si racconta, in tempi antichi era appartenuta a persone benestanti.
Al pianterreno c’erano la bottega di falegnameria del padre e le cantine, sopra,
invece, cucine, camere e ripostigli.
***
I genitori di Pasqualino erano persone semplici, senza
istruzione, col certificato di 3ª elementare, oneste.
La madre, una brava donna che s’occupava della casa della famiglia e della
campagna, era umile e sottomessa e non contrastava le decisioni del marito
neppure quando si trattava di difendere i figli.
Il padre esercitava il mestiere di falegname e, quando poteva, si recava nei
campi con la moglie per coltivare cereali ed ortaggi, potare viti, alberi da
frutta ed ulivi (di questi ne possedeva tanti).
Era allegro e socievole. Beveva con moderazione il vino che produceva ed aveva
il vizio del fumo. Ricordo che era solito mandare a comprare, dalle figlie
Onorina e Angelina, cinque sigarette per volta per non eccedere nel fumare.
(Allora le sigarette si vendevano sfuse).
Era piuttosto avaro ma giustificato perché in quei tempi la moneta scarseggiava
e per guadagnare un soldo bisognava compiere enormi sacrifici.
Non faceva mancare alla famiglia lo stretto indispensabile. Gli alimenti, quasi
interamente, erano il prodotto del lavoro dei componenti della famiglia.
In casa viveva anche la madre di lui, Giusta, che s’occupava degli animali
domestici, dalle capre alle galline, dai conigli al maiale. Si era soliti
comprare poche cose: sigarette, zucchero, scarpe e vestiti, questi davvero con
molta parsimonia.
***
Dopo il diploma di terza media, Pasqualino s’iscrisse alla
quarta ginnasiale.
S’era distinto per intelligenza e buona volontà, ecco perché poté scegliere il
liceo classico, allora considerato - e forse ancor oggi - la scuola degli alunni
migliori.
Gli studenti risiedevano quasi tutti ad Isernia, in una pensione o in case
private ma egli viaggiava. Non con la corriera (unico mezzo pubblico allora
disponibile) il cui orario non coincideva con quello dell’inizio delle lezioni,
ma con una bicicletta usata che il padre aveva comprato per pochi soldi.
Allora le strade non erano comode e si faceva tanta fatica a percorrerle.
Breccia e polvere e… tanto sudore.
Spesso le gomme delle ruote si bucavano e il povero Pasqualino si doveva fermare
a ripararle.
E così era costretto ad entrare in aula in ritardo, quando glielo permettevano,
oppure a marinare la scuola.
Alle sei del mattino, con il brutto o col bel tempo, partiva da casa e, se non
si verificavano imprevisti, arrivava in orario.
Nei banchi si concedeva il riposo fisico agognato mentre seguiva le lezioni dei
professori.
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