Romanzo
di Tiziana Pretti
Pagine: 120
Prezzo: 12,00 euro
E-mail: non indicata
Tel.: 333 9910328 (ore 18/20)
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PREFAZIONE
Questo racconto fotografa un momento della vita che tutti noi abbiamo vissuto,
ma del quale pochi, anzi pochissimi, si sono resi conto.
Un momento importante e, per questo, molto delicato, e non solo per tutto quello
che simbolicamente rappresenta, ma per i suoi stessi contenuti e per tutto ciò
che, da quel momento in poi, accadrà: il passaggio da adolescente a uomo.
Sono molti i cambiamenti che intervengono a sottolineare questo passaggio;
alcuni visibili, altri meno, ma tutti collaborano concordemente a questo
cambiamento.
E così la voce incomincia a stonare e note acute si alternano a quelle basse,
lasciando l’adolescente, prima sconcertato di fronte a ciò che sfugge al suo
controllo, poi gratificato di fronte alla prova che sta diventando uomo.
La barba, tanto desiderata quando non c’è, quanto falsamente snobbata alla sua
apparizione. Caratteristica importante, non certo da esibire, ma sicuramente da
sottolineare con un gesto noncurante che accarezza i baffi e i pochi, irti peli
del mento.
Tutto il corpo, che fino a ieri sembrava troppo grosso per contenere un ragazzo
e troppo difficile da governare, diventa all’improvviso una corazza, fatta su
misura per contenere la grande voglia di affrontare la vita e pronta ad
assecondare ogni desiderio.
Di fronte allo specchio, in quei momenti, si cercano i cambiamenti fisici, ma ci
si lascia travolgere dalle tempeste che, dentro, turbano, con il solo risultato
di sentirsi confusi, disorientati, eppure pieni di certezze.
Certezze che, crescendo, diminuiranno e si ridimensioneranno, sotto i colpi di
bacchetta di una maestra che non perdona: l’esperienza. Tornando al racconto, in
esso non sono tanto evidenziati i cambiamenti fisici, quanto quelli interiori.
E il ragazzo che ancora parla con un falco e si diverte facendo le capriole
sull’erba, un attimo dopo si ritrova a cercare il significato della vita, o
della morte, l’importanza dell’amicizia, della fratellanza.
I temi che, in modo metaforico e non diretto, vengono affrontati, sono quelli
che da sempre l’uomo conosce, ma che, negli ultimi tempi, sono passati un po’ in
secondo piano, sorpassati, doppiati e poi indegnamente battuti da altri, molto
meno nobili.
Non credo necessiti un elenco, non credo sia necessario un esempio, perché tutti
noi viviamo gli stessi problemi, ogni giorno, dentro e fuori dalle nostre case.
E allora, concediamoci una pausa, permettiamoci una follia: leghiamo un filo
alle ali di Kris e, comodamente seduti nella nostra poltrona, lasciamoci
trasportare da lui in questo viaggio, non del tutto inventato, solo in parte
immaginato.
E guardiamo, spiamo, ma con discrezione, quello che capita al ragazzo, lasciando
che i ricordi di quando eravamo noi ad avere la sua età escano dal caveau della
mente e risalgano, liberi di vedere la luce.
Poi però, come si fa con un gioiello particolarmente amato, non lasciamoli
scappare questi ricordi, ma rimettiamoli al loro posto, là dove nessuno ce li
potrà mai rubare.
PRIMA PARTE
Abitavo, a quei tempi, in una piccola città, o, se si preferisce, in un grande
paese, che aveva le sue radici nell’epoca romana.
E che i Romani fossero non solo passati di lì, ma si fossero fermati a lungo,
attirati forse dalla bella posizione tra amene colline e dalla presenza di
un’acqua termale calda e curativa, lo si capiva vedendo ciò che era rimasto a
testimonianza di quel periodo.
Quella dove abitavo era quindi una città turistica, dove, coloro che lì si
recavano per trarre beneficio dalle terme, si sommavano a quelli che invece
venivano per degustare la buona cucina e, soprattutto, il vino. Le colline che
la circondavano infatti sembravano essere state disegnate e modellate dalla
natura, appositamente per rendere possibile la coltivazione della vite che dava
vini veramente eccezionali. Ciò a detta degli adulti, perché io, a quei tempi,
ero un bambino e non conoscevo che il gusto dell’acqua e del moscato che, nei
giorni di festa, mi era concesso assaggiare.
Abitavo nell’appartamento, al terzo e ultimo piano, di un condominio come ce ne
sono tanti, situato a ridosso del centro storico, e lì vivevo con mia madre e
con mio padre.
Ho avuto la grande fortuna di conoscere due dei miei quattro nonni, i genitori
di mia madre, che abitavano proprio su quelle colline di cui dicevo prima.
La mia vita scorreva tranquilla tra l’asilo prima e la scuola poi, la famiglia,
gli amichetti, i cartoni animati, qualche giocattolo di troppo, le gite al mare
o in montagna e le visite ai nonni.
Mio padre diceva di me: "…è un bravo bambino, forse un po’ timido, ma si farà…".
L’opinione di mia madre era che io fossi " il bambino più bravo del mondo,
giudizioso, tranquillo, proprio un tesoro…"
Naturalmente, io non potevo deluderli e così crebbi, come di solito si usa dire,
"più maturo della mia età". Questo rappresentava un vantaggio o uno svantaggio,
a seconda delle situazioni; ma oggi, vivendo quel periodo della vita in cui si
tirano le somme, sono propenso a stabilire che i vantaggi furono sicuramente
maggiori.
La casa dove abitavano i miei nonni materni invece, si trovava a qualche
chilometro da casa mia, sulla collina. Era abbastanza vicina alla città, ma là
era tutto un altro mondo.
Era una casa di contadini, come ce ne sono tante, costruita su di un
terrazzamento naturale, di tufo, costituita da poche stanze, una stalla, un
fienile e una cantina. Tutto intorno c’era il terreno di proprietà, coltivato
per lo più a vite, un po’ di foraggio e un piccolo orto. Quasi tutte queste case
di campagna avevano anche un pollaio e una capanna per gli attrezzi agricoli.
I miei nonni avevano anche un forno, uno di quelli con la forma " a tartaruga",
fatto con i mattoni refrattari, dentro il quale la nonna faceva cuocere il pane.
Me la ricordo bene quella casa: si entrava nella cucina, piccola, un po’ buia,
arredata con mobili semplici, certo non di valore, non di legno pregiato come si
trovano invece negli appartamenti di città. C’era una grossa stufa a legna che
serviva per riscaldarsi, ma anche per cucinare e l’unico oggetto "moderno" era
il telefono, che la mia mamma aveva fatto installare "per stare più tranquilla,
così, se avete bisogno, potete chiamarci in ogni momento", ma che i miei nonni,
anche dopo qualche tempo, guardavano con un misto di diffidenza e di
disapprovazione, come a dire: "… e adesso che ce l’abbiamo? È solo un impiccio
costoso che non useremo mai…".
Dalla cucina, attraverso una porta stretta e bassa, si accedeva alla cantina.
Così come la cucina era lo spazio diretto e gestito dalla nonna, la cantina lo
era del nonno, e non solo durante la vendemmia, ma durante tutto l’anno. Era
stata scavata nel tufo della collina, che si appoggiava alla parte posteriore
della casa; dentro c’era una temperatura costante in tutte le stagioni, "
l’ideale per far venire il vino buono " diceva il nonno. Al suo interno, si
trovavano due botti e un tino in legno, un torchio, diverse damigiane,
numerosissime bottiglie, in parte vuote, in parte piene, ma tutte rigorosamente
ricoperte da almeno un dito di polvere.
In un angolo erano accatastate numerose ceste di vimini o di legno di castagno
che, un tempo, erano servite per il trasporto dell’uva dalla vigna alla cantina.
Con il tempo e con l’uso, alcune si erano rotte e il nonno era stato costretto a
sostituirle indegnamente con certi contenitori in plastica rossa, decisamente
più brutti, ma sicuramente più igienici. Ma non le aveva buttate, gli sarebbe
dispiaciuto, "… non si può mai sapere, potrebbero ancora servire…" diceva.
Al piano terra, separata dalla cucina da una scala che portava al primo piano,
c’era un’altra stanza: la sala; era arredata con mobili che, a me bambino,
sembravano enormi. Sulla parete, di fronte alla porta, c’erano due cornici scure
e lucide e, dentro, le fotografie di un uomo e di una donna che non avevo mai
conosciuto. Erano i miei bisnonni, i genitori di mia nonna. Lei era una signora
piccola e magra, con un vestito lungo, nero, impreziosito da un colletto di
pizzo bianco. Portava i capelli raccolti sulla nuca e dal suo viso traspariva
serenità.
Lui era più alto; indossava una giacca un po’ strana, corta e stretta, nera come
i pantaloni, un paio di scarpe bianche e nere, che la mamma mi aveva detto non
essere scarpe, ma "ghette", e un cappello in testa. Due enormi baffi e uno
sguardo serio gli conferivano una certa severità.
Sotto queste due fotografie, troneggiava un enorme divano, al centro del quale,
la nonna teneva una bambola, alla quale e chissà per quale motivo, era molto
affezionata. Era una di quelle bambole con le palpebre mobili: se si metteva in
posizione orizzontale, si chiudevano ed emetteva uno strano suono, simile alla
parola "mamma". Era vestita con un tremendo abito di pizzo azzurro, con un
enorme fiocco di raso bianco in vita e un cappellino in testa, dal quale
spuntavano due trecce bionde e stoppose.
Non si poteva giocare con quella bambola. L’avevo capito bene la prima volta che
avevo tentato di prenderla in mano: la nonna infatti, sempre così dolce e
disponibile, mi aveva afferrato il braccio, stringendomelo anche più del
necessario e, dicendomi con voce ferma " questa non si tocca ", si era ripresa
la bambola, l’aveva rimessa al centro del divano, le aveva aggiustato bene il
vestito e, dopo averla guardata con aria compiaciuta, mi aveva fatto uscire
dalla stanza.
Al primo piano c’era la camera da letto, ma, di quella stanza, ricordo solo un
buon profumo di pulito, un grande letto e due "campane" di vetro, montate su due
supporti di legno scuro, che avevano, al loro interno, due composizioni di fiori
in seta rosa. Si trovavano su un mobile basso, con tanti cassetti ai lati di uno
specchio rettangolare.
Non entrai molte volte in quella stanza e, le poche volte che lo feci, provai
una strana sensazione di disagio; per questo motivo, non accettai mai di restare
a casa dei nonni a dormire.
Di fianco alla camera da letto, c’era un piccolo bagno, che, in inverno, veniva
riscaldato con una stufa a metano.
Già, perché in quella casa non c’erano i termosifoni e, nella stagione fredda,
per riscaldare un po’, non tanto la camera, quanto le lenzuola, i miei nonni
usavano uno strano sistema: alla sera, dopo cena, la nonna toglieva dalla stufa
a legna un bel po’ di brace; la metteva dentro un contenitore di terracotta, la
ricopriva con un po’ di cenere e la portava in camera da letto. Sotto le coperte
c’era una strana struttura in legno, lunga e panciuta, che serviva per tenerle
sollevate; dentro questa struttura, la nonna metteva il contenitore con la
brace. In questo modo, il calore riscaldava il letto, senza il pericolo che le
coperte prendessero fuoco. I nonni chiamavano questo sistema per riscaldare il
letto " prete". Ero piccolo a quei tempi e non mi sono mai chiesto perché si
chiamasse così; e ancora oggi non lo so, ma ormai non posso più chiederlo a
nessuno, poiché è una di quelle cose che appartengono al passato.
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