Tante storie
di Rosetta Greco Garilli
Pagine: 35
Prezzo: non indicato
Tel.: 095 213556
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DIC IL RANDAGIO
Cara bimba,
mi chiamo Dic e sono un meticcio vissuto, anni or sono, “In quest’atomo opaco
del male”.
Adesso, da un lontano luogo dove tutto è gioia, amore e serenità, voglio
raccontarti la mia triste storia.
Ero un cucciolo felice, non appartenevo a nessuna razza pregiata; prendevo il
latte dalla mia mamma e crescevo giocando assieme ai miei fratellini.
La libertà ci dava gioia e felicità. Lo sguardo della mia mamma, però, non era
sereno. Tutte le mattine di buon ora ella andava in cerca di cibo per sfamarci.
Un triste giorno aspettammo invano che ritornasse da noi. Pioveva a dirotto, il
cielo era coperto di nuvole nere. Il nostro rifugio era una grotta dove l’acqua
entrava da ogni parte. Anche le piante di ulivo, che popolavano quella zona,
sembravano piangere un doloroso presagio.
Eravamo sei fratellini, accovacciati gli uni sugli altri per riscaldarci un po’.
Avevamo tanta fame e tanto bisogno di quel calore di mamma che nessun altro
seppe più donarci.
Nostra madre era stata travolta e uccisa da una macchina in corsa.
La stessa sorte toccò, più tardi ai miei fratellini che, per sfuggire alle
molestie dei ragazzi cattivi, finirono nel vortice della morte. Rimasto solo e
sconsolato cominciai a vagabondare per le strade, aspettando che qualche anima
buona mi desse un po’ di pane duro da sgranocchiare. Spesso andavo a rovistare
nella spazzatura in cerca di qualcosa che potesse riempirmi lo stomaco. Così,
con tanta fatica, andai avanti per un po’, non ricordo quanto, finché trovai la
mia buona fatina. La Signora mi portava dei buoni pasti che consumavo con
avidità e riconoscenza. Mi sentivo più forte e più sicuro nell’affrontare le
persone che mi molestavano. Anche i ragazzi della zona impararono a poco a poco,
a volermi bene e rispettarmi. Correvo, giocavo, ero veramente felice. Avevo,
quasi dimenticato la mia squallida infanzia. Con il mio “bau bau” volevo
ringraziare tutti coloro che mi proteggevano e, in modo particolare la mia cara
Signora. Ma, ancora una volta, il peso di quel destino amaro e senza pietà che
grava su tutti i randagi cambiò la mia vita. Iniziò il principio di una triste
fine. Il mio abbaiare disturbava qualcuno che provò ad uccidermi. Con una “lapa”,
specie di macchina-bici mi travolse lasciandomi a terra ferito. Non avevo la
forza di abbaiare, mi lamentavo appena per il dolore che mi procuravano le
ferite. La gente che passava non si curava tanto delle mie condizioni, qualche
ragazzo mi accarezzava, qualche altro mi buttava dei sassi. Insomma, ero in
balia della buona e cattiva sorte. Ed ecco all’improvviso farsi avanti il mio
“angelo custode”. Provai una dolce sensazione di benessere come se
all’improvviso i miei dolori si fossero bloccati, la guardai con speranza e
affetto. Il suo sguardo era triste, il suo sorriso amaro ma la sua carezza era
sempre affettuosa e dolce. La Signora non poteva portarmi a casa sua perché
aveva altri due cani, però chiamò subito aiuto all’E.N.P.A. (Ente Nazionale
Protezione Animali). Fui condotto in un rifugio dove si trovavano tanti, cento e
più cani sfortunati, abbandonati naturalmente dai loro padroni senza scrupoli e
senza cuore. Era un luogo triste, vi erano tanti cancelli e recinti da sembrare
una vera prigione. Fui sistemato in un recinto non molto grande, dove rimasi,
per qualche giorno, accovacciato con i miei dolori e la mia infinita malinconia.
Non avevo fame e nemmeno le forze per lamentarmi. Aspettavo con rassegnazione la
fine della inutile e vuota mia vita.
La mia “fatina” però, non mi aveva abbandonato, infatti dopo qualche giorno si
presentò nel mio recinto con tante cose buone da mangiare e con il suo triste
sorriso sulle labbra. Una forza improvvisa mi fece scattare e Le andai incontro.
Cercai di dimostrarLe tutto il mio affetto scodinzolando a più non posso, ero
veramente felice, provai una infinita gioia nel sentirmi accarezzare.
Mangiai con avidità e, con il mio abbaiare dissi tutto ciò che il mio cuore mi
dettava.
Volevo dirLe grazie per essersi ricordata di me, grazie e poi ancora grazie per
le sue tenere carezze, grazie per il suo sguardo pieno di amore, grazie per la
sua presenza.
La gioia, purtroppo durò poco; l’amara realtà piombò sulla mia vita di “cane
randagio”.
La mia fatina, dopo avermi riempito le ciotole di tante cose buone da
rosicchiare, si allontanò con gli occhi umidi di pianto.
Ero solo, ancora solo nell’immenso vuoto di una prigione piena di triste storie.
Era un continuo vociare, richieste di aiuto, lamenti di ogni sorta. In quella
folla tutti insieme raccontavano la loro storia, i rimpianti e i ricordi di
carezze perdute. Era un linguaggio chiaro, nitido e sicuramente incomprensibile
per chi di cuore ne ha uno che batte solo per i piaceri della vita.
Accovacciato e in silenzio ricordavo la mia mamma, rivedevo i suoi grandi occhi
pieni di tenerezza e di amore; la sua aggressività nel difenderci da chi ci
molestava. Ricordavo ancora i suoi sacrifici per procurarci da mangiare.
Rivedevo i miei fratellini che, ancora piccoli innocenti pagarono con la vita un
debito non loro; vittime della violenza di ragazzi privi di cuore, di
sensibilità e di rispetto per il mondo.
Avevo voglia di piangere, di pregare, di gridare all’umanità di smetterla di
perseguitarci e lasciarci vivere tranquilli. DIO ha sistemato anche noi -
randagi - su questo “palcoscenico”, anche noi siamo miseri “debuttanti” nel
teatro della vita.
La mia cuccia non era molto grande, mi permetteva appena, di fare qualche passo
in lungo e in largo; così potevo muovere piano piano le mie zampe ancora
indolenzite dalla botta ricevuta. Le zampe guarirono, ma non guarì il mio cuore
dalla solitudine.
Le visite della Signora divennero sempre più rare. Quando veniva al canile Ella
piangeva, mi accarezzava, mi stringeva a se e mi raccontava della sua vita. Era
triste per la mia sorte, non aveva la possibilità di tenermi con sé e di ciò ne
soffriva tanto.
Il canile era un luogo dove le guardie cinofile portavano tutti i randagi come
me; vi era un custode che puliva e, una volta al giorno ci dava da mangiare.
Avevo sempre fame perché il cibo non era sufficiente.
Un giorno aspettai invano, l’ometto piccolo e barbuto non si fece vedere, non
pulì più le cucce, non ci diede più da mangiare e neanche da bere.
Passò qualche giorno, l’abbaiare si affievoliva man mano che trascorrevano le
ore. I più piccoli non riuscirono a sopravvivere, per noi adulti l’agonia durò
più a lungo.
Ma cosa aveva provocato quel mutamento? Ben presto lo capii. Vennero delle
persone che aprirono i cancelli delle nostre cucce per lasciarci liberi; una
libertà che era simile ad una condanna a morte.
Il custode, non più pagato, aveva abbandonato il suo posto di lavoro.
Si ritornava sulla strada, un habitat ormai sconosciuto, pieno di insidie e
pericoli, e, dove nessuno si sarebbe preoccupato di noi.
Intorno al rifugio vi era un boschetto; pini e alberi di alto fusto oscuravano
il cielo, vi era pure un ruscello dove scorreva acqua sporca.
Senza forze e senza più voglia di abbaiare, ha avuto inizio il nostro vagare
senza meta.
Diana, la mia compagna preferita non volle seguirmi, si accovacciò sulla sponda
del ruscello e con lo sguardo sperduto nel vuoto mi disse: “Addio mio caro
amico, questo è l’epilogo della mia storia. Porterò con me il ricordo della
nostra amicizia.”
Sembrava addormentata ma in realtà era passata ad una vita più serena.
Sentivo il mondo crollarmi addosso. I pensieri si sovrapponevano gli uni sugli
altri nella mia mente, ormai offuscata più che per la fame e la sete, dal dolore
della solitudine.
Anch’Io, dopo qualche giorno di angoscioso vagare, mi accovacciai sotto un
albero, chiusi gli occhi e mi addormentai. Rividi la mia dolce mamma e i miei
fratellini e, tutti insieme andammo verso l’infinito uniti per sempre.
Cara bimba, se ami il tuo CUCCIOLO non abbandonarlo mai.
Difendilo dalla crudeltà dei grandi e dalla cattiveria di ragazzi senza cuore:
cresci insieme a lui e darai esempio di vera Civiltà.
Dic il randagio
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