Saggio storico
di Gualtiero Schiara
Pagine: 213
Prezzo: 20 euro
ISBN 978-88-6170-022-2
 


 

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PROFILO DELL'AUTORE

GUALTIERO SCHIARA - Torinese, nato nel 1953, si occupa di controlli sulla qualità e coerenza di opere di ingegneria, in termini di sicurezza, fattibilità ambientale ed economica dei progetti. Ha redatto articoli su riviste specialistiche relativi alla trasformazione del suolo urbano ed all’inquinamento atmosferico dell’area torinese; ciò, unitamente all’interesse per le vicende storiche locali, ha stimolato in lui la volontà di approfondire la conoscenza del carattere originario della città di Torino, con il suo intreccio di orgogliose passioni e di impulsi di solidarietà, di trasformazioni sociali a volte tumultuose, di equilibri ricercati nel rigore degli schemi urbani e nella grazia elegante di sobrie, quanto metafisiche, architetture, nel perenne contrasto tra spiritualità ed innovazione. Per queste ragioni è associato alla Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, prestigiosa associazione fondata a Torino nel 1874 ed operante nella tutela del patrimonio archeologico ed artistico piemontese fino alla costituzione delle Soprintendenze Statali.
Si è aggiudicato il terzo premio al Concorso Letterario Internazionale Maestrale-San Marco “Marengo d’Oro 2006”, nella sezione saggistica con l’opera “Il carattere torinese: l’impronta della città tra nostalgia e sfida al futuro”, con la quale indaga i rapporti inscindibili tra la storia e l’immagine di Torino, seguendo l’insegnamento crociano per il quale il carattere di un popolo è determinato dalla sua storia, tutta la sua storia, nient’altro che la sua storia. A questo saggio è stato inoltre assegnato il Premio Speciale del Presidente dell’Associazione Penna d’Autore relativo alla XIII edizione dell’omonimo Premio Letterario, nella sezione D - Narrativa/ Saggistica.

LE ORIGINI

Vi è un nesso inscindibile tra la storia, l’immagine di una città, lo spirito che vi si respira percorrendola in lungo ed in largo ed il carattere di chi vi abita; la città nasce e cresce per soddisfare le esigenze dei suoi abitanti, porta i segni tangibili dei periodi migliori dello sviluppo sociale come di quelli devastanti degli eventi nefasti come le carestie, le guerre e le epidemie infettive, mostra traccia delle storie umane che l’hanno animata attraverso la ricchezza o la povertà dei materiali e dei sistemi costruttivi utilizzati per edificarla, recepisce le evoluzioni e le trasformazioni della struttura sociale negli schemi urbanistici che via via si sovrappongono, integrandosi con i precedenti o sostituendosi a questi con la volontà di accentuare il segno del cambiamento. Allo stesso modo lo sviluppo planivolumetrico delle abitazioni, la vivacità sociale dei suoi cortili e delle attività umane che la alimentano con energia e passione, forniscono l’immagine sociale, la storia giuridica, economica e commerciale di un popolo. Ogni segno derivante dal passato di una città permette di leggervi le regole che interagiscono con la storia, così come la trama sintetizza e collega gli eventi descritti in un romanzo; ogni aspetto della storia e della tradizione di una città produce una forse piccola ma indelebile impronta nel carattere dei suoi abitanti, così come il linguaggio espressivo di una statua nasce da una serie di piccoli e risoluti colpi di scalpello, guidati dall’intuizione e dalla sensibilità artistica dello scultore. La struttura del governo della città, il criterio con cui è organizzata la partecipazione alla vita pubblica delle varie classi sociali, il modo in cui è amministrata la giustizia, le credenze religiose ed i riti esercitati negli spazi pubblici delle chiese o nel quieto isolamento conventuale, le forme ed i luoghi in cui avvenivano gli scambi commerciali, fino alle regole seguite dalla comunità urbana per garantirsi l’igiene, la salute e la sicurezza sociale, rappresentano aspetti della vita urbana che possono lasciare tracce più o meno evidenti nel carattere dei cittadini; carattere che diventa pertanto lo specchio dell’immagine della città, ovvero un insieme di segni, di percezioni e di sensazioni che la città, qualsiasi città, comunica a chi, forestiero, ne percorra vie e piazze.
Il passato di una collettività non dovrebbe essere aridamente letto come una sequenza di eventi utili a comprendere lo sviluppo evolutivo della società, ma dovrebbe attrarre attenzione per le dinamiche tendenziali che vi si possono scoprire nella ricerca di un futuro possibile, uno stimolo che proietti nel futuro i nostri perché, uno scatto di orgoglio che trasformi le angosce e le paure in obiettivi e mete da raggiungere; così come nel passato furono mete agognate il progresso, la libertà e la giustizia sociale, ora la coscienza collettiva torinese deve interrogarsi sulle nuove mete e le future sfide, cosciente che anche gli errori sono utili e comunque preferibili al solo piangersi addosso.
Giovanni Arpino, uno degli uomini di cultura più autenticamente torinesi, riteneva che questo bisogno di comprendere la storia fosse fondamentale per il futuro di Torino e che ciò richiedesse un nuovo innamoramento verso le caratteristiche peculiari di questa città, tali furono in proposito le sue parole: “Si bisognerebbe riamare questa Torino, così pudica, così virile, così struggente, così intrisa di futuro e così attenta ad un passato memorabile... Perdere la conoscenza della propria storia è smarrire l’unico documento psicologico utile a sopravvivere. Ci sta accadendo. Dovremo ricordare. Non per nostalgia, ma per essere.”
L’uomo ha necessità di studiare e comprendere i processi storici e l’origine della propria identità e di trasmetterla alle generazioni successive, anche e forse soprattutto in quanto ciò può funzionare da antidoto contro futuri errori, come nel caso del secolo trascorso e delle sue tremende follie collettive. Una testimonianza di questa necessità di comprendere appieno la storia, avvicinandosi a questa con interesse e passione, quasi ricercandone un piacere, è fornita da un importante torinese di adozione quale Antonio Gramsci; nell’ultima sua breve lettera al figlio Delio, quando il suo stato fisico non gli consentiva ormai più che poche righe, egli, informandosi sulle sue fatiche scolastiche, si augurava che questi studiasse con piacere la storia e nel rivolgergli l’esortazione paterna all’impegno, così motivava l’interesse per la storia: “... perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacere più di ogni altra cosa”.
Non di meno il territorio stesso su cui sorse questa come le altre le città, il modo in cui fu utilizzato, modificato e sfruttato dall’uomo, o, utilizzando un termine di moda “antropizzato”, è servito a fornire sostentamento e protezione ma al tempo stesso insidie, quali l’insalubrità delle aree paludose, la rigidità del clima o le difficoltà da superare per la realizzazione di collegamenti commerciali, condizionando non solo lo sviluppo della comunità, ma anche il carattere stesso delle genti che lo hanno abitato, il loro modo di garantirsi la sopravvivenza e trasmettere la conoscenza di quello stesso territorio alle generazioni successive.
L’antropologo culturale Carlo Tullio Altan ha approfondito il tema delle componenti simboliche dell’identità di una popolazione, individuando cinque direttrici fondamentali per l’identificazione di un popolo; queste componenti fondamentali coagulano manifestazioni culturali, luoghi, sentimenti, regole e vincoli comportamentali, forme espressive che sono servite per aggregare gruppi di individui, plasmandole insieme fino a farne sentimento e carattere comune. Essi sono:
l Epos: sentimento dell’identità della patria e della sua memoria storica;
l Oikos o Topos: ovvero il luogo, la madre-patria cui un popolo si sente affettivamente legato;
l Ethos l’insieme delle norme di convivenza vissute come valori e parte integrante della coscienza collettiva;
l Genos i vincoli della parentela e della stirpe;
l Logos la lingua parlata in comune.
La comunanza di queste componenti simboliche, la condivisione di eventi storici, di luoghi e tradizioni, le credenze religiose comuni, plasmano nel tempo l’identità dei singoli, permettendogli di riconoscersi all’interno di un gruppo, ovvero contribuendo a creare l’identità culturale comune; dapprima a livello di piccoli gruppi tribali, poi su dimensioni territoriali sempre maggiori sino a costruire l’identità nazionale, allo stesso modo in cui oggi si spera di poter costruire un’identità comune europea.
Per Benedetto Croce il carattere di un popolo è la sua storia, tutta la sua storia, nient’altro che la sua storia, ciò in antitesi ai più utilizzati “stereotipi” ed ai luoghi comuni sui membri di una comunità, intesi come visione superficiale, talvolta anche spregiativa, di singoli e sporadici aspetti dell’identità culturale complessiva di un popolo, intendendo con ciò che è inesorabilmente il passato e solo quello a condizionare il carattere delle genti; un analogo concetto si trovava già espresso da Kant nella sua “Fondazione della metafisica dei costumi”, dove nella prima parte è descritto il percorso che va dalla conoscenza comune della moralità alla filosofia morale.
L’indagine sull’origine del carattere di un gruppo di individui, sia esso tribù, città o nazione, non è soltanto presente nella recente ricerca antropologica, perché ha appassionato anche i padri nobili della nostra letteratura, uno di questi, Giacomo Leopardi, ha illustrato il carattere nazionale italiano nel suo “Discorso sopra lo Stato presente dei costumi degli italiani”, concludendo non esservi differenze sostanziali tra la società italiana del tempo e quella delle più evolute nazioni europee o americane, a meno di un’importante assenza, quella della società in quanto struttura di relazioni interpersonali consolidate in tutte le sue espressioni, compresi gli interessi comuni del tempo libero. Tra le ragioni di questa assenza di capacità di aggregazione sociale intorno a temi ed interessi comuni, egli annoverò il clima italiano e la vivacità del carattere italiano, il primo induce a trascorrere la vita all’aperto ed a rifuggire dalla frequentazione di ambienti culturali, il secondo tende a far preferire i piaceri degli spettacoli a quelli propri dello spirito e può avere come conseguenze deleterie la negligenza e la pigrizia.
Il testo leopardiano si addentra in molte considerazioni sull’origine storica del carattere italico, quali la mancanza di un vero centro dello Stato e di altre forme di coesione culturale autenticamente nazionali, come la letteratura o il teatro, l’abitudine a sostituire la conversazione con la canzonatura (“raillerie” nel testo), il cinismo e la mancanza di interesse nella pubblica opinione, sostituita da cento proverbi popolari che invitano a non curarsi del giudizio altrui, cosicché, circa il rapporto tra gli italiani e l’opinione pubblica, egli così conclude: “Insomma niuna cosa, ancorché menomissima, è disposto un italiano di mondo a sacrificare all’opinion pubblica...”. Questo testo leopardiano, che anticipa molte argomentazioni delle successive scienze sociali, a volte in modo impietoso, a volte generoso di elogi, ironico, ma sempre attento a non cadere nella retorica del “campanile”, ci porta a concludere che Giacomo Leopardi considerava queste lacune culturali comuni, questa mancanza di un'autentica identità nazionale, come la vera origine della variegata ricchezza culturale delle città italiane, ognuna delle quali assume un proprio costume, una sua maniera di porsi: “Ma lasciando tutte queste e quelle, e restringendoci alla sola mancanza di società, questa opera naturalmente che in Italia non havvi una maniera, un tuono italiano determinato. Quindi non havvi assolutamente buon tuono, o egli è cosa così vaga, larga e indefinita che lascia quasi interamente in arbitrio di ciascuno il suo modo di procedere in ogni cosa. Ciascuna città italiana non solo, ma ciascuno italiano fa tuono e maniera da sé”.
In effetti, basta risalire le vallate piemontesi per accorgersi come con quanto orgoglio, anche i piccoli comuni rivendichino, forse per retaggio dell’Italia medioevale dei liberi comuni, il proprio diritto di essere solo e soltanto se stessi; uno fra tutti il comune di Coazze, dove il motto “ognuno a suo modo”, domina il territorio dall’alto del campanile della chiesa di Santa Maria del Pino, suonando da monito ai forestieri.
Cercare di capire Torino vuol dire vedere nella sobria dignità dei suoi palazzi, nelle fughe prospettiche delle vie, nelle grandi piazze, nei bovindi che si affacciano dalle facciate liberty, nei ballatoi che ruotano intorno ai cortili interni degli isolati, nei lunghi percorsi porticati, nei raggi che dalla collina salutano il mattino riflettendosi tra gli abbaini settecenteschi, le persone che l’hanno resa viva, come i globuli sanguigni che conferiscono vita all’organismo percorrendolo ovunque nelle vene, per alimentare con l’ossigeno la crescita e le trasformazioni di un unico e solo individuo, non confondibile con nessuno degli altri che pure nascono con trasformazioni simili. Questa energia vitale della città, come ha osservato Lewis Mumford, possiede la funzione di trasformare il potere in strutture, l’energia in cultura, elementi morti in simboli viventi di arte, la riproduzione biologica in creatività sociale.
Occorre osservare questa città senza commettere l’errore di identificare luoghi, palazzi e stili con gli eventi storici che vi accaddero o il potere che vi si insediò; errore in cui sono caduti e cadono quanti identificano Torino con la Fiat, con il potere di stampo militare dei duchi e dei sovrani che la governarono o infine con quanto di mistico, o per taluni di esoterico, può esservi nei luoghi che circondano la Sacra Sindone. È ancora Arpino ad ammonirci: “Non confondiamo, secondo le distorsioni di certa sociologia, il palazzo che fu con il potere che in esso fu contenuto. Perché, innanzi tutto, quel palazzo era opera di molti e apparteneva a molti, anzi alla città intera. Non confondiamo il barocco pubblico con la smania dei sovrani, che del resto furono parchi. Il volto di una città è sempre rispondente ai suoi abitanti, a tutti i suoi abitanti. Sennò Parigi non sarebbe Parigi e Lubecca non sarebbe Lubecca, e la mirabile Amsterdam si confonderebbe con la stupenda Praga”.

continua

- VETRINA LETTERARIA -

 
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