Romanzo
di Francesca Tucci
Pagine: 122
Prezzo: 13,70 euro
ISBN 978-88-6170-006-2
Opera 2ª classificata ex aequo
alla 13ª
edizione del
Premio Letterario Internazionale
«Trofeo Penna d'Autore»
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PROFILO DELL'AUTRICE
FRANCESCA TUCCI, nata a Roma il 25-01-1963 - Slavista, si è dedicata per lungo
tempo all’attività di traduttrice pubblicando articoli e libri. Dal 1990 al 1997
ha collaborato con una casa editrice di produzioni multimediali, scrivendo testi
per audiovisivi e ipertesti con destinazione pedagogica, formativa e
divulgativa. Ha collaborato con Michelangelo Antonioni alla realizzazione di un
libro fotografico sulla carriera e la filmografia del regista. Per due anni ha
scritto e curato la pagina culturale del periodico economico «Forum» edito a
Roma. Dal 1997 si è dedicata alla scrittura creativa, prevalen-temente nel
genere fantastico, vincendo numerosi premi. Ha pubblicato la raccolta di
racconti di fantasmi «Oltre la porta» (Roma, 2004), il romanzo «La rosa blu» (Montedit,
2005), diversi racconti su riviste specializzate in fantastico e noir.
LA GARA - Il Bambino d'Oro
1
Mi trovavo sotto il monumento a George Washington e avevo in
tasca esattamente due dollari. Ero stato la notte precedente ad una festa in una
villa fuori città. Laggiù avevo conosciuto una ragazza, questo lo ricordavo
chiaramente. Ma ero brillo e non avevo annotato il suo indirizzo. Cindy, o
qualcosa del genere. Mi aveva detto che si occupava di giornalismo, o che stava
scrivendo qualcosa. Aveva gambe lunghe e un viso da Madonna bizantina.
Mi occupo di finanza. Di quello che un titolo dovrebbe o non dovrebbe fare per
rendere felici gli azionisti. Le ricerche di mercato sono la mia specialità,
riesco ad individuare le società in crollo, quelle in ascesa, quelle che
renderanno bene fra un paio di anni. Scrivo qualche volta sui giornali
finanziari articoli pieni di dati e cifre che in genere non dimentico
facilmente. Ogni tanto devo perciò prendermi una vacanza o partecipare ad una
festa come quella di ieri per fare in modo che i fumi dell’alcol e la
confusione, o la musica ad alto volume mi facciano uscire un po’ di tutto quel
sapere economico dalla testa.
Dunque, è gennaio, le nuvole se ne stanno ghiacciate in cielo, il monumento è
più freddo della neve e la spianata di cemento è assolutamente vuota. Io me ne
sto qui con i postumi di una sbornia, ancora piacevolmente caldo nelle spalle,
ma già consapevole del fatto che presto vomiterò. Intanto cerco di mettermi in
piedi e considero che potrei chiamare la mia ex moglie con i due dollari che mi
ritrovo in tasca. Un’auto con almeno sette persone a bordo mi ha scaricato qui
verso le sei del mattino. Considero il mio dolore al collo - dovuto
probabilmente al fatto che me ne sono stato qui appoggiato col capo al monumento
e forse ho sonnecchiato - e poi i taxi che carosellano sulla piazza in schiere
ordinate, in gruppi di due, di tre. Decido alla fine dolorosamente di alzare un
braccio e infilarmi in un city cab lasciando la questione del pagamento
all’attimo dell’arrivo. Il guidatore ha un berretto con la visiera girata sulla
nuca, è piuttosto giovane e ha gli occhi celesti, li vedo nello specchietto
retrovisore. Procede con un gioco elegante di freno frizione e ingrana spesso le
marce alte, dato che a quest’ora del mattino non c’è traffico. Le vie ampie e
alberate del centro mi scorrono davanti in un languore alcolico, troppo verdi le
foglie, troppo bianca la neve. Mi allento il colletto per un leggero problema di
respirazione, mi sento i capelli arruffati e mi pare che la barba mi stia
crescendo percettibilmente, fatto che mi induce a passarmi ossessivamente i
polpastrelli sul mento. Dovrei lavorare stamattina, e quindi mi faccio lasciare
davanti all’ufficio, dove tengo in un armadietto un cambio di abiti, un rasoio,
la schiuma e il dopobarba. Mi rendo conto dopo aver chiesto i soldi per il taxi
al portiere dello stabile - con il quale intrattengo un rapporto passabilmente
banale – e di avere gli occhi rossi come un vampiro. Basta un’occhiata allo
specchio dell’ascensore. Il mio aspetto mi spaventa talmente che comincio a
pensare al party come ad una riunione di cocainomani e telefono alla mia
segretaria per disdire gli appuntamenti del mattino. Però l’ufficio deserto mi
piace. L’odore delle poltrone in pelle, la donna moldava che sta ancora
ripassando le scrivanie con uno spray odoroso, le scope addossate alla parete,
un aspirapolvere che mi intralcia l’ingresso nel bagno. La donna si scusa, io le
sorrido. Non capisco come possa avermi preso effettivamente per il
vicedirettore, cioè per me stesso. Ma queste slave hanno il sesto senso. Mi
ripresento ripulito e sbarbato e mi vedo offrire un caffè senza zucchero.
«Lo so» dice, sorridendo e alzando una mano senza che possa spiegare. «Ieri era
una settimana a Capodanno. Questi sono i prodromi. Quindi c’è Capodanno, poi
arriva il momento della depressione autentica fino a Pasqua».
«Lei è…».
«Sono laureata in chimica. Mantengo mio figlio agli studi in America. Vuole
andare al MIT. E a me piace il New Jersey».
Ho lasciato il mio ufficio perfettamente riordinato e pulito verso le otto.
Volevo andare a dormire. Pensavo già alla luce che filtrava dolcemente fra le
veneziane da una grigia mattinata invernale, al ticchettio della sveglia come
unico rumore di fondo e alla morbidezza di una coperta termica che mi avrebbe
fasciato le gambe. Invece, quando sono sceso dal taxi davanti al cancello, lei
era lì, con un cappotto chiaro, i capelli neri un po’ scompigliati dal vento e
la borsa stretta allo stomaco come se avessero tentato di strappargliela. Non ho
faticato a riconoscere il viso, ma era impossibile che si fosse risollevata da
quella notte in poche ore, come io avevo fatto per essere stato all’aria fresca
sotto il monumento nell’aria gelida.
Era la mia conoscente della notte, una ragazza alta dai capelli neri che avevo
appena salutato uscendo da una villetta in collina ancora piena della confusione
del party, su di una soglia spazzata dal vento. Il viso pareva più pallido, ma
era comprensibile, dato che lei non aveva potuto dormire quel poco che io avevo
dormito e neanche passare da una toilette a ripulirsi. Ero sorpreso di trovarla
lì, dato che il mio indirizzo glielo avevo dato senza pensarci, come succede ad
una festa, ed ero convinto che non l’avrei rivista mai più. Perciò scesi dal
taxi e balbettai qualche frase di circostanza. Invece lei, stringendo la
borsetta con le nocche quasi bianche dalla tensione, mi disse: «Deve aiutarmi».
E veramente questa frase era assurda in quella mattina fredda, pronunciata da
una donna bellissima che quasi non conoscevo e considerata la mia funzione di
agente finanziario. Ritenni si trattasse di un crollo di qualche società, forse
di azioni in ribasso, e dissi: «Farò il possibile. Si accomodi». Le aprii il
cancello per farla entrare. Mosse passi lunghi nelle scarpe altissime. Indossava
ancora il vestito luccicante che aveva al party, il trucco si era leggermente
sfatto, il viso era teso.
«Spero che non sia per qualche lite in famiglia. Questa forse ha marito e vuole
raccontarmi i suoi dolori. Non lo sopporterei di mattina presto e nei postumi
dell’alcol».
Fui cauto. Preparai un tè caldo, la feci sedere sul divano di pelle e osservai:
«Tempo freddo». Tralasciai che volevo proprio andarmene a dormire, che mi
sentivo stanchissimo, che avevo immaginato di ficcarmi subito a letto per
dormire dodici ore.
La donna – non ricordavo il suo nome – posò finalmente quella borsa che teneva
al petto ed estrasse un documento.
«Si tratta di un problema. Lei dovrebbe ospitare qui un bambino. Non so dove
nasconderlo».
Impallidii. Anzi, percepii tangibilmente che impallidivo come un cencio. Il
primo pensiero fu che fosse pazza e dovessi immediatamente chiamare un medico, o
la polizia.
«Mi permetta. Ma il motivo per cui proprio io?»
«Mi dava del tu, alla festa» osservò leggermente contrariata.
«Ci si da sempre del tu alle feste» risposi un po’ brusco. «E poi ero brillo».
«Mi ha detto che vive solo. E aveva una faccia buona. Lei è un agente di borsa.
Si intende di soldi. È benestante. Io mi vesto con eleganza, ma sono povera. Non
capisco niente di denaro. Ho una casa piccola. E poi tutti si stupirebbero a
vedere un bambino a casa mia. Dovrei lasciarlo solo tutto il giorno».
«Permette» dissi irritato «Non ci siamo capiti. Io per lei sono un estraneo, e
non voglio neanche sapere…».
«Non è un mio parente» mi interruppe la ragazza estraendo dalla borsetta un
pacchetto di fazzoletti, da cui prese un fazzolettino col quale si asciugò il
sudore nervoso dal labbro superiore. «E non è neanche esattamente mio figlio».
A questo punto mi avvicinai al telefono. Se avesse avuto una crisi lì sul mio
divano volevo essere pronto a chiamare la polizia.
«Mi chiamo Mirna. Si ricorda, penso di averglielo detto» aggiunse, riponendo il
fazzoletto appallottolato nella borsa. «Lei dovrebbe essere tanto gentile da
ascoltarmi. È una storia un po’ complessa».
continua |