PROFILO DELL'AUTORE
PIPPO NERI è nato ad Adrano, una cittadina alle pendici dell'Etna, nel 1947. È
cresciuto a Catania dove si è laureato in Medicina. Nel 1977 si è specializzato
in Microbiologia presso l'Università di Torino. Dal 1974 vive a Ivrea e
attualmente è Direttore Responsabile del Dipartimento dei Servizi Sanitari dell'ASL
di Chivasso, Primario dei Laboratori di Analisi di Chivasso e Ciriè, Professore
a contratto presso l'Istituto di Patologia Clinica dell'Università di Torino e
Membro di alcune Società scientifiche. Ha al suo attivo una settantina di
pubblicazioni tecniche pubblicate su riviste specializzate. Dal punto di vista
letterario ha scritto un romanzo di genere “giallo scientifico” e ha
recentemente pubblicato, tramite la Casa Editrice HEVER, un romanzo di genere
storico sul Carnevale d'Ivrea. Uno dei suoi racconti brevi è stato premiato dal
“Salotto Letterario” di Torino nella edizione del 2007 dei “Racconti in
passerella”. Un altro racconto ha avuto la “Menzione d'onore” al XIV Trofeo
Internazionale “Penna d'Autore”.
BUMMA
La vita del pescatore, si sa, è dura e lo sapevano bene Turi
Maugeri e Mino Tringali coetanei, sui trent’anni, che facevano quel mestiere fin
da ragazzi.
Uno Turi, era alto, magrissimo, capelli ricci, il naso aquilino con gli occhi
spiritati e l’altro Mino era grasso, bassino, quasi pelato, il naso a patata e
gli occhi infossati.
Avevano tre figli piccoli a testa e abitavano in due bassi contigui in
caseggiato vicino al porticciolo di Marina di Melilli, piccolo paese di
pescatori tra Siracusa e Augusta.
Si era agli inizi degli anni settanta ed era appena cominciata in quella zona
vicino a Priolo l’operazione "tabula rasa" che avrebbe portato in pochi anni
alla costruzione di quell’enorme complesso di raffinerie che avrebbe segnato, da
allora, con un feroce inquinamento tutta la zona.
Per il momento però era ancora "la baia degli Dei" come l’avevano chiamata i
greci.
Il cielo era ancora azzurro e non grigio piombo e l’acqua del mare era
trasparente e non torbida e oleosa.
In riva al mare attorno agli scarti del pescato sulle pietre del porticciolo e
vicino alle reti i gabbiani si affollavano lanciando i loro caratteristici
striduli versi.
Quel tardo pomeriggio primaverile mentre il sole calava alle loro spalle i due
stavano seduti sulle sedie impagliate accanto alla porta del basso e guardavano
il mare davanti a loro.
Fumavano e non parlavano, da lì si vedevano bene la bassa banchina con gli
ancoraggi e il rovinato casamento della pescheria.
Appartate insieme le loro mogli anch’esse sedute erano intente a ricucire le
reti che stavano allungate sui bordi dello stradone sterrato.
I bimbi correvano giocando di qua e di là.
In fondo allo stradone molto più avanti si stagliavano le prime ciminiere della
raffineria che scaricavano nell’aria i pennacchi di fumo deviati verso terra dal
vento marino.
Il silenzio vespertino fu rotto prima da un ronzio poi fu come un borbottio
scoppiettante di motore e da dietro il piccolo promontorio che a picco sul mare
recava in cima un minuscolo faro a lanterna bianco a strisce rosse, sbucò un
barcone.
Era una feluca a motore per la pesca del pescespada.
Questi scafi sono molto particolari: abbastanza snelli e molto veloci hanno
sulla prua una lunghissima passerella munita di corrimano che termina in uno
slargo rotondo a mo di terrazzino. Quello è il posto del fiocinatore detto "lanzaturi".
In mezzo alla barca poi c’è un albero alto una ventina di metri fornito di scala
a pioli e reca in cima un sedile con tanto di cintura di sicurezza.
Quest’altro è il posto della vedetta detta "ntinneri".
Quando il marinaio di vedetta avvista il pescespada, un altro marinaio va sul
terrazzino e si prepara con l’arpione detto "ferru" a cui è attaccata una lunga
cima.
Comincia la rincorsa e il timoniere guidato dalle urla della vedetta si appressa
alla preda, la segue e la raggiunge finché il grande e velocissimo pesce arriva
a tiro del fiocinatore che scaglia l’asta puntuta infiggendola fino al dente
d’arresto sì da ancorargliela profondamente nel corpo. Scorre la cima, si svolge
tra i flutti e poi si tende, lo xifide cerca di sfuggire, lotta, s’immerge,
tira, s’appoggia, ma alla fine esausto si arrende al destino ormai segnato.
Il barcone rallentò fino a fermarsi davanti al piccolo molo.
Calò l’ancora a poppa e un marinaio saltò a terra per fermare una cima al ferro
di ormeggio.
Una piccola folla di pescatori e di curiosi si avvicinò alla barca che
saldamente legato alla fiancata ostentava un enorme pescespada di cinque metri.
Il mostro brunito con il suo peso inclinava e copriva buona parte di un lato
dello scafo.
Le cime ne torcevano la testa sì che la lunga spada puntava orgogliosamente
verso il cielo quasi a lanciare l’ultima sfida.