PROFILO DELL'AUTRICE
TIZIANA PRETTI è nata a Trino in provincia di Vercelli. Infermiera e
psicomotricista, ama scrivere racconti per bambini. Il suo primo libro, edito
nel 2002, è stato «Cirillo e la collina del sorriso». Nell’ottobre 2005 è uscito
«Il ragazzo delle stelle», nell’ottobre 2006 «C’era una volta un bosco» e
nell’ottobre 2007 «La rivincita del popolo dei cacciati».
I PROFUMI DELLA MEMORIA
Era una bella domenica di fine ottobre. Il clima mite e il
sole invogliavano a fare una passeggiata, una delle ultime, forse, prima
dell’arrivo dell’inverno.
In città, si teneva il mercatino dell’antiquariato ed io avevo deciso di andare
a curiosare tra la merce esposta.
È questo uno dei miei passatempi preferiti e anche se, di solito, non acquisto
alcunché, tuttavia riesco sempre a portarmi a casa nuove emozioni, vecchi
profumi e belle storie che solo le cose di un tempo passato sanno regalare.
Per poter trarre il massimo risultato da una passeggiata come quella che mi
accingevo a fare, occorre però trovarsi nello stato d’animo adatto e quindi non
avere fretta, non farsi distrarre dalla gente e dai rumori che ci circondano e
lasciarsi guidare dalla curiosità.
Ogni oggetto ha una sua storia ed è in grado di raccontarcela: basta saperlo
guardare.
E così, una grande chiave, con l’anello dell’impugnatura arrugginito e la mappa
ben lustra, ci parla di una casa, forse medioevale, disabitata da tempo, ma non
completamente abbandonata. Venduta, probabilmente per essere ristrutturata, a
qualcuno che alla vecchia porta di doghe chiodate ha preferito un nuovo
portoncino in alluminio blindato. Peccato.
Un arcolaio ci racconta invece la storia di una donna di paese che, nei lunghi
pomeriggi invernali, si recava nella stalla, dove, insieme ad altre donne,
passava il tempo disfacendo una vecchia maglia ormai lisa e, recuperando quella
lana, ne faceva una matassa. L’avrebbe poi lavata, forse tinta con l’unico
colore a quei tempi disponibile: il nero. Poi l’avrebbe, con pazienza,
rilavorata, ottenendo così un capo praticamente nuovo.
Perché quando non c’erano soldi neppure per comprare l’indispensabile, non ci si
poteva permettere certo di buttare via una maglia, anche se lisa.
Chissà quale sarebbe stato il primo oggetto che avrebbe attratto la mia
curiosità… Pregustavo il momento mentre, a passo lento, mi avvicinavo alla via
dove era allestito il mercato.
Il primo ambulante esponeva vecchia mobilia, abbastanza in buono stato. C’era un
tavolo rettangolare, con la struttura in legno e il ripiano di marmo grigio.
Accanto al cassetto che si apriva su un lato, c’era un foro rotondo, dentro il
quale alloggiava il mattarello.
Sul tavolo era appoggiato un lume a petrolio, senza stoppino, e una “bugia” in
ottone che reggeva un moccolo di candela.
Accanto al tavolo c’era un armadio con un’unica anta, di semplice fattura, e,
poco più in là, una piattaia che conteneva alcuni piatti di ceramica bianca.
Ma ciò che attirò la mia attenzione fu un canterano che, a prima vista, pareva
uguale ad altri, disposti ordinatamente in prima fila o seminascosti da altri
pezzi di povera mobilia, lungo quella strada ombrosa.
La sua era una storia un po’ particolare: i suoi cassetti avevano racchiuso e
custodito segreti unici che non interessavano la maggior parte dei passanti che,
adducendo il pretesto di curiosare tra i banchi del mercatino, desideravano solo
godere dei caldi raggi di sole di quel pomeriggio di fine autunno.
Mi avvicinai a quel mobile incuriosita dalla perfezione di una rosa scolpita nel
legno, al centro del primo cassetto.
Il fiore sembrava sbocciato da poco: i petali esterni, dalla forma perfetta,
sembravano tendersi verso il tiepido sole, come a voler carpire da quei raggi la
forza necessaria a compiere l’ultimo sforzo per potersi aprire, in tutto il loro
vigore, mostrando la loro bellezza.
Nonostante gli anni trascorsi, quel fiore era ancora vivo e pulsante di vita,
almeno ai miei occhi. Al centro, i petali, invece, erano ancora chiusi, quasi
volessero celare, ma ancora per poco, il cuore dolce e profumato di quella rosa;
un cuore non ancora pronto, ma desideroso si, di donarsi alle api che già gli
facevano la corte, ronzandogli intorno con forse troppa insistenza, ma
rispettose comunque di un tempo che già prometteva una dolce ricompensa.
Ai lati del bocciolo, due foglie completavano il fregio, trasformando il mobile,
costruito in legno povero, in un pezzo assolutamente unico e di ottima fattura.
Gli altri tre cassetti non avevano nessuna incisione, ma solo due piccole
maniglie scure, forse di ferro o di ottone brunito, per permetterne l’apertura.
Il legno non aveva venature molto evidenti, forse a causa della vernice scura
che lo ricopriva o della patina che il tempo trascorso aveva depositato sulla
sua superficie.
Guardando attentamente si poteva vedere il lavoro dei tarli che, con molta
ostinazione e molto tempo, l’avevano qua e là bucherellato, senza però minarne
la solidità e la bellezza.
Lo toccai: levigato e caldo al tatto, sembrava volermi parlare, sembrava
invitarmi ad aprire quel cassetto sul quale il bocciolo di rosa pareva più
schiuso rispetto a quando l’avevo notato; sembrava desideroso di raccontarmi i
suoi segreti.
E fu così che, con molto rispetto, quasi con timore, mi decisi a suggere quel
dolce racconto che i petali aperti mi offrivano.
E aprii il cassetto.
Rosina era figlia di un taglialegna e di una contadina: gente
povera, come tanta ce n’era a quei tempi, per la quale l’onestà, la dignità e
l’onore rappresentavano i veri valori della vita. Abitava in quattro stanzette
arredate con mobili semplici, essenziali direi. Un tavolo, quattro sedie e una
credenza rappresentavano l’arredamento della cucina, dove, oltre ad un acquaio
sprovvisto di acqua corrente, e un camino, utile per riscaldarsi, ma anche per
cucinare, non c’era altro che ordine e pulizia.
L’uno e l’altra cosa venivano messi in evidenza, nelle belle giornate estive,
dal sole che entrava da una finestrella posta proprio di fronte al camino; e,
per questo, nelle stagioni di mezzo e in inverno, quando un raggio pallido di
quello stesso sole penetrava nella cucina, sembrava voler sfidare la
brillantezza della fiamma che, nel focolare, non si lasciava mai languire.
Rosina era nata nella camera da letto accanto alla cucina: un grande letto di
ferro scuro sul quale era disteso un materasso di foglie di granoturco,
racchiuse in una fodera di stoffa a righe blu e bianche.
Un materasso povero certo, ma molto popolare, molto utilizzato, ai tempi di cui
stiamo parlando.
La materia prima, le foglie di granturco, era facilmente reperibile, poiché
c’erano molti campi dove il mais veniva coltivato e quasi tutte le famiglie
contadine ne possedevano uno: piccolo o grande, secondo la disponibilità di
terra, il numero di bocche da sfamare o di capi di animali da cortile da
allevare.
Le foglie, asciutte e ben secche, avvolgendo i corpi nelle fredde notti
invernali, trasmettevano un piacevole tepore e la comodità di quella imbottitura
dipendeva anche dal suo spessore. Le donne di casa lo sapevano bene; perciò,
quando giungeva il tempo della raccolta di quelle foglie, ci si dedicavano a
lungo, ben sapendo che quello non era certo tempo sprecato. La manutenzione del
pagliericcio poi non rappresentava un problema: non necessitava di un lungo
lavoro di cardatura, come la lana, ma era sufficiente aggiungere nuove foglie
per renderlo di nuovo bello gonfio e comodo.
E quando, a sera, dopo una lunga giornata di lavoro, i contadini andavano a
coricarsi erano così stanchi che certo non facevano caso a quegli scricchiolii
che provenivano proprio dal materasso, ad ogni piccolo movimento del corpo.
Le lenzuola avevano il profumo inconfondibile della liscivia, con la quale erano
state lavate, e del sole che le aveva asciugate. Più che un profumo era un
sentore, una sensazione piacevole di pulito, di bucato appena fatto. Ogni
lenzuolo era formato da quattro teli di stoffa tessuta a mano, tenuti assieme da
un fitto e preciso punto cordoncino che veniva insegnato alle bambine dalle
mamme che, a loro volta, lo avevano imparato fin da piccole.
Per eseguirlo ci voleva precisione e pazienza, due qualità non facilmente
riscontrabili nelle giovani, di qualsiasi generazione si parli; ma dopo i primi
tempi in cui il lavoro veniva scambiato per un gioco ed eseguito in modo
approssimato con mano imprecisa e impaziente di terminare, i gesti diventavano
sempre più lenti, precisi, quasi armoniosi; e nei pomeriggi invernali, accanto
al fuoco, accompagnavano i racconti dei nonni e i sogni delle giovani
adolescenti.