Riccardo Rolando

Autobiografia
con mete storiche
di Rolando Riccardo
Pagine: 149
Prezzo: 10 euro
ISBN 978-88-6170-044-4
 


 

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RACCONTAMI DI TE

Sfollati (1° capitolo)

Settembre 1942.
All’epoca avevo da poco compiuto sette anni e risalgono a questa data i miei ricordi ben definiti, mentre quelli riferiti ai periodi precedenti sono più che altro dei semplici squarci fotografici su alcuni momenti particolari dell’infanzia.
In un tardo pomeriggio di fine estate mi trovavo, assieme a mia madre, su di una antiquata e superaffollata corriera che ci trasportava verso l’abitato di Piverone (a), un paese dell’alto Canavese che i miei genitori avevano scelto come località adatta per il nostro sfollamento, dopo l’avvenuto intensificarsi dei bombardamenti (b) sulla città di Torino, la città dov’ero nato e dove, sino a quel momento, avevo sempre risieduto.
Tale scelta non era avvenuta a caso, perché Piverone era il paese d’origine di mia madre dove, considerato che mio padre avrebbe continuato a rimanere in città per raggiungerci soltanto ogni due o tre settimane, in caso di necessità avremmo trovato aiuto ed appoggio da parte dei tanti parenti che vi abitavano.
Sul vecchio e traballante veicolo, che di chilometri doveva averne percorsi certamente tanti, ero seduto accanto al finestrino ma, immerso nei miei pensieri, il paesaggio mi scorreva di fianco senza che io gli rivolgessi anche soltanto un semplice sguardo.
Rimpiangevo gli ambienti che avevo lasciato, i miei piccoli amici, la scuola dei Fratelli delle Scuole Cristiane di via delle Rosine, ma soprattutto mi preoccupavo del come mi sarei trovato con i nuovi e del tutto sconosciuti compagni di classe.
Appena giunti in paese la mia prima reazione fu di completa delusione perché, confrontando il piccolo agglomerato di case con le grandi strutture urbanistiche della città da cui provenivo, lo trovai piccolo e piuttosto trasandato.
Più avanti cambierò completamente opinione, ma sul momento l’impressione fu tale e così rimase per parecchie settimane.
Al nostro arrivo fummo accolti da molti parenti a vario titolo, tutte persone che forse avevo già conosciuto in occasione di una qualche visita con i miei genitori, ma delle quali non mi era rimasto alcun ricordo, il che contribuì a rendere più deludenti i primi momenti vissuti in una località che invece ci avrebbe avuti come ospiti per tre lunghi anni.
Allora, per mia fortuna, non conoscevo quanto sarebbe durata la guerra e quindi mi cullai nell’illusione che quanto prima avremmo fatto ritorno a Torino.
Quella sera andai a letto molto presto, sia per un’effettiva stanchezza, ma soprattutto perché avevo una grande voglia di sfogare, in un pianto solitario, tutta la tristezza che mi albergava nel cuore.
Le lacrime si fecero ancora più cocenti quando, singhiozzando, realizzai appieno quanto grande fosse la sofferenza per l’ormai avvenuta divisione della famiglia e, soprattutto, quanto sarebbe mancata la presenza quotidiana di mio padre.
Con il ragionamento un poco egoista, com’è spesso frequente nei bambini, non riuscivo a capacitarmi del perché lui non si fosse unito a noi in quel "maledetto" trasferimento.
Passarono parecchi giorni, ed in particolare fu necessaria la grande pazienza di mia madre che, quasi quotidianamente, mi ripeteva i motivi per cui il papà non avrebbe mai potuto abbandonare il posto di lavoro da cui derivavano le nostre non certo floride entrate, prima che mi convincessi di tale realtà.
Di tutti i discorsi della mamma però mi rimase soprattutto impresso nella memoria che mio padre non avrebbe mai potuto abbandonare il suo datore di lavoro, di cui era autista personale e uomo di fiducia e, da allora, io cominciai ad "odiare", di un "odio" infantile e quindi non "cattivo", com’è appunto quello dei bambini, l’ing. Pietro Bertolone.

A quei tempi, ma poi anche nei due decenni che seguiranno, questo signore era una persona molto nota nell’ambiente industriale ed economico piemontese, in cui ricopriva molti incarichi di rilievo ma, in particolare, era famoso perché amministratore delegato e direttore generale della RIV (c), l’azienda torinese che, allora, era l’unica in Italia a produrre tutti i tipi di cuscinetti a rotolamento e che, come dimensioni, era seconda soltanto alla grande FIAT.
Nel corso degli anni avrò modo di incontrarmi/scontrarmi altre volte con questo personaggio, ed in tutte queste occasioni mi ritorneranno sempre in mente le sensazioni del mio "antagonismo" infantile dei primi giorni piveronesi.
La località, in cui mio malgrado mi ero ritrovato è, come ormai ben sai, in prossimità di uno specchio d’acqua di una certa dimensione, noto in Piemonte come lago di Viverone.
Il paese, come ovviamente anche oggi, presentava le caratteristiche proprie delle zone lacustri che in taluno possono indurre, specie nei periodi di transizione fra le stagioni calde e quelle della pioggia e del freddo, una sottile e malinconica tristezza, e questa caratteristica influì di certo sul mio deprimente stato d’animo dei primi tempi.
Poco più di un mese dopo il nostro arrivo ci raggiunse, per stabilirsi anch’essa con noi, la nonna materna, nonna Celestina, e ciò contribuì non poco a modificare il mio atteggiamento di difficile accettazione delle nuove realtà in cui mi ero dovuto inserire.
Con lei trovai subito un conforto per i miei piccoli o grandi problemi e, da quel momento, fu a lei che mi rivolsi sempre di più per esternare gli eventuali crucci quotidiani, o i primi segreti per una qualche innocente simpatia verso delle compagne di giochi o di scuola, cioè tutte quelle cose che diversamente mai avrei osato confidare a mia madre.
Sempre da allora sarà poi dalla nonna che correrò a rifugiarmi quando, come sovente mi succedeva in quegli anni, ricevevo dai genitori dei rimproveri o dei castighi e lei, con il suo dolce dialetto piemontese, sapeva ogni volta trovare le espressioni più adatte per consolarmi, facendomi capire quanto fosse doveroso per un padre ed una madre riprendere il proprio figliolo, per guidarlo nel cammino di una valida formazione personale.
Nonna Celestina, per tutti quanti affettuosamente Tina, era una donna fragile e minuta, incurvata dal peso degli anni e dal tanto lavoro svolto nel corso di una travagliata esistenza, durante la quale aveva dovuto superare non soltanto delle grandi difficoltà economiche, ma anche delle tristissime vicende familiari che, pur avendola indubbiamente provata, non ne scalfirono mai la naturale bontà d’animo.
Proveniva da una famiglia che non godeva di floride condizioni economiche, sposandosi ancora molto giovane e ritrovandosi ben presto a dover affrontare una vita di grandi sacrifici, con quattro figlie da allevare proprio nei primi anni del Novecento, un periodo in cui, per quanti appartenessero alle classi sociali più umili, le difficoltà del vivere quotidiano sono state sicuramente notevoli.
Nella costante ricerca di una qualche strada per migliorare le loro condizioni economiche i nonni, seguendo l’esempio di tanti altri italiani, emigrarono a New York, ma il risultato di un tale tentativo si rivelò purtroppo deludente, inducendoli ben presto a rientrare in Italia, dove si ritrovarono ancora più poveri di quando l’avevano lasciata.
Durante i tre anni di vita in comune io spesse volte, con l’infantile insistenza propria dei bambini, l’ho indotta a raccontare di quel lontano periodo della sua vita, perché i fatti e le situazioni di cui lei mi parlava venivano da me interpretati alla stregua di storie avventurose in terre lontane e sconosciute, che immaginavo ancora popolate dagli eroi dei tanti romanzi di Salgari che, in quegli anni, costituivano le mie letture preferite.
Dalle sue parole, sempre pacate e prive di qualsiasi enfasi drammatica, ho così avuto modo di apprendere dei disagi e degli enormi sacrifici fatti da chi, volendo cercare in terra straniera un lavoro che consentisse una dignità di esistenza negata in patria, contribuì all’enorme flusso migratorio che ha caratterizzato la storia italiana, raggiungendo la sua massima espansione proprio negli anni compresi tra la fine dell’ottocento e l’inizio della prima guerra mondiale (d).
Nella mia fantasia, ascoltando quei suoi racconti, di volta in volta condividevo con lei le fatiche e le costrizioni di un lungo viaggio, effettuato in un’esasperante promiscuità con tanta povera umanità, e della successiva umiliante quarantena a Ellis Island, allora obbligatoria per quanti volessero ottenere il permesso di stabilirsi negli Stati Uniti.
Mi immedesimavo nelle sue paure dei primi giorni vissuti nella nuova città, con tutte le comprensibili difficoltà derivanti dal non conoscere la lingua del posto, e soprattutto dall’affanno di dover trovare rapidamente un’occupazione, per sé e per il nonno, che assicurasse un minimo di guadagno continuativo per l’affitto di un piccolo alloggio e per l’acquisto dello stretto necessario alla sopravvivenza quotidiana.
Riprovavo con lei le ansie ed i timori per le ricorrenti minacce e gli odiosi ricatti a cui, spesso, erano sottoposti gli emigrati da organizzazioni mafiose che, in quegli anni di un prepotente ma disordinato sviluppo economico americano, controllavano il mercato del lavoro dei nuovi arrivati in quel grande Paese.
Partecipavo infine con lei alla maturazione della sofferta decisione di un mesto ritorno in Patria per ritentare, in un ambiente più familiare, la strada di una decorosa emancipazione sociale.

continua

- VETRINA LETTERARIA -

 
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