RACCONTAMI DI TE
Sfollati (1° capitolo)
Settembre 1942.
All’epoca avevo da poco compiuto sette anni e risalgono a questa data i miei
ricordi ben definiti, mentre quelli riferiti ai periodi precedenti sono più che
altro dei semplici squarci fotografici su alcuni momenti particolari
dell’infanzia.
In un tardo pomeriggio di fine estate mi trovavo, assieme a mia madre, su di una
antiquata e superaffollata corriera che ci trasportava verso l’abitato di
Piverone (a), un paese dell’alto Canavese che i miei genitori avevano
scelto come località adatta per il nostro sfollamento, dopo l’avvenuto
intensificarsi dei bombardamenti (b) sulla città di Torino, la città
dov’ero nato e dove, sino a quel momento, avevo sempre risieduto.
Tale scelta non era avvenuta a caso, perché Piverone era il paese d’origine di
mia madre dove, considerato che mio padre avrebbe continuato a rimanere in città
per raggiungerci soltanto ogni due o tre settimane, in caso di necessità avremmo
trovato aiuto ed appoggio da parte dei tanti parenti che vi abitavano.
Sul vecchio e traballante veicolo, che di chilometri doveva averne percorsi
certamente tanti, ero seduto accanto al finestrino ma, immerso nei miei
pensieri, il paesaggio mi scorreva di fianco senza che io gli rivolgessi anche
soltanto un semplice sguardo.
Rimpiangevo gli ambienti che avevo lasciato, i miei piccoli amici, la scuola dei
Fratelli delle Scuole Cristiane di via delle Rosine, ma soprattutto mi
preoccupavo del come mi sarei trovato con i nuovi e del tutto sconosciuti
compagni di classe.
Appena giunti in paese la mia prima reazione fu di completa delusione perché,
confrontando il piccolo agglomerato di case con le grandi strutture urbanistiche
della città da cui provenivo, lo trovai piccolo e piuttosto trasandato.
Più avanti cambierò completamente opinione, ma sul momento l’impressione fu tale
e così rimase per parecchie settimane.
Al nostro arrivo fummo accolti da molti parenti a vario titolo, tutte persone
che forse avevo già conosciuto in occasione di una qualche visita con i miei
genitori, ma delle quali non mi era rimasto alcun ricordo, il che contribuì a
rendere più deludenti i primi momenti vissuti in una località che invece ci
avrebbe avuti come ospiti per tre lunghi anni.
Allora, per mia fortuna, non conoscevo quanto sarebbe durata la guerra e quindi
mi cullai nell’illusione che quanto prima avremmo fatto ritorno a Torino.
Quella sera andai a letto molto presto, sia per un’effettiva stanchezza, ma
soprattutto perché avevo una grande voglia di sfogare, in un pianto solitario,
tutta la tristezza che mi albergava nel cuore.
Le lacrime si fecero ancora più cocenti quando, singhiozzando, realizzai appieno
quanto grande fosse la sofferenza per l’ormai avvenuta divisione della famiglia
e, soprattutto, quanto sarebbe mancata la presenza quotidiana di mio padre.
Con il ragionamento un poco egoista, com’è spesso frequente nei bambini, non
riuscivo a capacitarmi del perché lui non si fosse unito a noi in quel
"maledetto" trasferimento.
Passarono parecchi giorni, ed in particolare fu necessaria la grande pazienza di
mia madre che, quasi quotidianamente, mi ripeteva i motivi per cui il papà non
avrebbe mai potuto abbandonare il posto di lavoro da cui derivavano le nostre
non certo floride entrate, prima che mi convincessi di tale realtà.
Di tutti i discorsi della mamma però mi rimase soprattutto impresso nella
memoria che mio padre non avrebbe mai potuto abbandonare il suo datore di
lavoro, di cui era autista personale e uomo di fiducia e, da allora, io
cominciai ad "odiare", di un "odio" infantile e quindi non "cattivo", com’è
appunto quello dei bambini, l’ing. Pietro Bertolone.
A quei tempi, ma poi anche nei due decenni che seguiranno,
questo signore era una persona molto nota nell’ambiente industriale ed economico
piemontese, in cui ricopriva molti incarichi di rilievo ma, in particolare, era
famoso perché amministratore delegato e direttore generale della RIV (c),
l’azienda torinese che, allora, era l’unica in Italia a produrre tutti i tipi di
cuscinetti a rotolamento e che, come dimensioni, era seconda soltanto alla
grande FIAT.
Nel corso degli anni avrò modo di incontrarmi/scontrarmi altre volte con questo
personaggio, ed in tutte queste occasioni mi ritorneranno sempre in mente le
sensazioni del mio "antagonismo" infantile dei primi giorni piveronesi.
La località, in cui mio malgrado mi ero ritrovato è, come ormai ben sai, in
prossimità di uno specchio d’acqua di una certa dimensione, noto in Piemonte
come lago di Viverone.
Il paese, come ovviamente anche oggi, presentava le caratteristiche proprie
delle zone lacustri che in taluno possono indurre, specie nei periodi di
transizione fra le stagioni calde e quelle della pioggia e del freddo, una
sottile e malinconica tristezza, e questa caratteristica influì di certo sul mio
deprimente stato d’animo dei primi tempi.
Poco più di un mese dopo il nostro arrivo ci raggiunse, per stabilirsi anch’essa
con noi, la nonna materna, nonna Celestina, e ciò contribuì non poco a
modificare il mio atteggiamento di difficile accettazione delle nuove realtà in
cui mi ero dovuto inserire.
Con lei trovai subito un conforto per i miei piccoli o grandi problemi e, da
quel momento, fu a lei che mi rivolsi sempre di più per esternare gli eventuali
crucci quotidiani, o i primi segreti per una qualche innocente simpatia verso
delle compagne di giochi o di scuola, cioè tutte quelle cose che diversamente
mai avrei osato confidare a mia madre.
Sempre da allora sarà poi dalla nonna che correrò a rifugiarmi quando, come
sovente mi succedeva in quegli anni, ricevevo dai genitori dei rimproveri o dei
castighi e lei, con il suo dolce dialetto piemontese, sapeva ogni volta trovare
le espressioni più adatte per consolarmi, facendomi capire quanto fosse doveroso
per un padre ed una madre riprendere il proprio figliolo, per guidarlo nel
cammino di una valida formazione personale.
Nonna Celestina, per tutti quanti affettuosamente Tina, era una donna fragile e
minuta, incurvata dal peso degli anni e dal tanto lavoro svolto nel corso di una
travagliata esistenza, durante la quale aveva dovuto superare non soltanto delle
grandi difficoltà economiche, ma anche delle tristissime vicende familiari che,
pur avendola indubbiamente provata, non ne scalfirono mai la naturale bontà
d’animo.
Proveniva da una famiglia che non godeva di floride condizioni economiche,
sposandosi ancora molto giovane e ritrovandosi ben presto a dover affrontare una
vita di grandi sacrifici, con quattro figlie da allevare proprio nei primi anni
del Novecento, un periodo in cui, per quanti appartenessero alle classi sociali
più umili, le difficoltà del vivere quotidiano sono state sicuramente notevoli.
Nella costante ricerca di una qualche strada per migliorare le loro condizioni
economiche i nonni, seguendo l’esempio di tanti altri italiani, emigrarono a New
York, ma il risultato di un tale tentativo si rivelò purtroppo deludente,
inducendoli ben presto a rientrare in Italia, dove si ritrovarono ancora più
poveri di quando l’avevano lasciata.
Durante i tre anni di vita in comune io spesse volte, con l’infantile insistenza
propria dei bambini, l’ho indotta a raccontare di quel lontano periodo della sua
vita, perché i fatti e le situazioni di cui lei mi parlava venivano da me
interpretati alla stregua di storie avventurose in terre lontane e sconosciute,
che immaginavo ancora popolate dagli eroi dei tanti romanzi di Salgari che, in
quegli anni, costituivano le mie letture preferite.
Dalle sue parole, sempre pacate e prive di qualsiasi enfasi drammatica, ho così
avuto modo di apprendere dei disagi e degli enormi sacrifici fatti da chi,
volendo cercare in terra straniera un lavoro che consentisse una dignità di
esistenza negata in patria, contribuì all’enorme flusso migratorio che ha
caratterizzato la storia italiana, raggiungendo la sua massima espansione
proprio negli anni compresi tra la fine dell’ottocento e l’inizio della prima
guerra mondiale (d).
Nella mia fantasia, ascoltando quei suoi racconti, di volta in volta
condividevo con lei le fatiche e le costrizioni di un lungo viaggio, effettuato
in un’esasperante promiscuità con tanta povera umanità, e della successiva
umiliante quarantena a Ellis Island, allora obbligatoria per quanti volessero
ottenere il permesso di stabilirsi negli Stati Uniti.
Mi immedesimavo nelle sue paure dei primi giorni vissuti nella nuova città, con
tutte le comprensibili difficoltà derivanti dal non conoscere la lingua del
posto, e soprattutto dall’affanno di dover trovare rapidamente un’occupazione,
per sé e per il nonno, che assicurasse un minimo di guadagno continuativo per
l’affitto di un piccolo alloggio e per l’acquisto dello stretto necessario alla
sopravvivenza quotidiana.
Riprovavo con lei le ansie ed i timori per le ricorrenti minacce e gli odiosi
ricatti a cui, spesso, erano sottoposti gli emigrati da organizzazioni mafiose
che, in quegli anni di un prepotente ma disordinato sviluppo economico
americano, controllavano il mercato del lavoro dei nuovi arrivati in quel grande
Paese.
Partecipavo infine con lei alla maturazione della sofferta decisione di un mesto
ritorno in Patria per ritentare, in un ambiente più familiare, la strada di una
decorosa emancipazione sociale.