|
Io ero forse un’altra persona.
No, solo, non avevo più
l’antico scopo.
Dimenticare o ricordare?
Non ci pensavo più.
Avevo perso chissà dove,
in qualche pozzanghera
tra l’erba
la cognizione del tempo
e la coscienza dell’essere.
Eppure io esistevo;
con tutta me stessa,
io ero.
Ed ero io.
Io morta e sepolta e risorta
dalle mie ceneri.
Io senza più voglie
né mire né sentimenti,
io vuota e piena
d’incertezze, io nuova.
E viva la mia pasqua!
Che cosa sono adesso?
Ho distrutto o
costruito? Ho vinto
o sono stata sconfitta?
Non so lo e non riesco a saperlo.
E ancora mi dibatto in mezzo ai se
e ancora grido, inutilmente grido:
odio la primavera.
Via delle Ginestre,
via degli Ulivi,
foglie d’argento.
Argento anche nell’acqua
del mare
e nei capelli,
argento nelle mani.
Scorre scorre,
e non lo puoi fermare.
E il tuo silenzio
e il mio,
a un tratto,
ma non calcolati,
e ci stupirono entrambi
e non seppi mai darmi
una spiegazione.
Quando un uomo e una donna
non hanno più nome,
quando la vita
non è più che un palpito
e quando passano sensazioni
col vento forte che
non distinguono più
dal loro respiro,
aleggia la parola grande,
l’essenza d’immenso,
il verbo impronunciabile.
Significa esistere
e non chiedere di più.
Significa perdersi, ma
tornare sempre.
L’Orso Grosso e l’Orso Piccino
vagando nel bosco
incontrarono l’orco cattivo
che trasse il coltellaccio
e donò bambole e confetti.
La bambina con gli occhi sgranati
contempla il nonno che cambia
il finale sul filo di lana.
Grazie di essere esistito
non per la stirpe
non per l’orizzonte
rosa e vago dei quadri
non per il triste accordo di chitarra
ma per due orsi fatati
che accompagnarono una bambina
nell’intricato bosco della vita.
- VETRINA LETTERARIA -
HOME PAGE
|
|